[18/08/2008] Comunicati

Sulle morti da lavoro, anche a Ferragosto

FIRENZE. Neanche la pausa ferragostana interrompe, ormai, la catena dei morti sul lavoro. E mentre si muore in edilizia, in fabbrica, nei campi, nel trasporto merci, nei cantieri stradali, l’indifferenza e/o la rassegnazione appaiono l’atteggiamento dominante. Delle malattie professionali neanche si parla, mentre secondo l’Oms le conseguenze mortali sono almeno tre volte superiori a quelle per infortuni. L’Italia pare abbia un triste primato in Europa, la Toscana sta facendo il possibile ma il fenomeno si riduce di poco.

Ma anche quando si agisce, osservatori e commentatori evitano di affrontare le cause globali che danno luogo, perpetuano e aggravano (ad esempio nei paesi cosiddetti emergenti, di nuova industrializzazione di massa) le condizioni di lavoro e lo stato di salute collettiva. Si evita di confrontare i dati relativi alle condizioni di lavoro e salute con quelli che mostrano sotto gli occhi di tutti le gigantesche differenze di reddito e di ricchezza che si sono determinate dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso, dando luogo ad un modello sociale in cui le condizioni di lavoro sono l’ultima preoccupazione dei governi degli stati nazionali in crisi di fronte alla globalizzazione e all’interdipendenza economica sempre più pressante.

Da almeno trecento anni le origini e le repentine espansioni del capitalismo sono attribuite al ritmo del cambiamento tecnologico e alle sue discontinuità. La terza rivoluzione industriale, quella ancora in atto, cominciata nella seconda metà del secolo scorso, centrata sull’avvento delle “macchine intelligenti”, costituisce un vero salto tecnologico che si è manifestato con terribili cambiamenti sociali a partire dal modo in cui le persone vivono e lavorano.

Ma da quando il sistema capitalistico di produzione è apparso, si é caratterizzato, nei suoi cicli di espansione, per una costante accelerazione del ritmo dei cambiamenti tecnologici. La combinazione della crescita della scala della produzione - e la conseguente espansione incessante del mercato capitalistico - con l’abbreviarsi del periodo temporale entro cui il cambiamento si è completato, ha stressato le istituzioni umane aumentando la violenza dei conflitti di ciascuna fase di transizione.

Non deve sorprendere perciò se il conflitto che precede la costituzione di un nuovo ordine mondiale, qualunque esso sarà, avvenga a spese del lavoro e dei paesi poveri (“l’ultimo miliardo della terra”). Non va dimenticato che “tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, il salto del capitalismo dal livello nazionale a quello planetario ebbe inizio nuovamente con il crollo dei margini di profitto sugli investimenti e il calo della produttività del lavoro”. Il salto avvenne non solo “perché la rivoluzione nei trasporti e nell’informatica lo rese possibile, ma anche perché la caduta dei margini di profitto degli investimenti nella produzione di beni lo rese necessario” (P.S. Jha).

L’esperienza dei passati cicli di espansione capitalistici ci dice che il mondo, ben lontano dall’entrare in una fase di espansione equilibrata, appare destinato a conflitti crescenti. Questo rende e renderà assai ardua la difesa delle condizioni di lavoro fino a quando non saranno raggiunti nuovi equilibri che avranno reso più confrontabili a livello globale le forme del lavoro e le condizioni salariali.
(1. continua)

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