[12/09/2008] Comunicati

Che cosa aspetti ancora, amico, per capire…

ROMA. “Che cosa aspetti ancora amico per capire…” così recitava la traduzione di una vecchia canzone del 1968. La cantarono, in tutto il mondo, milioni di giovani donne ed uomini, diventando il simbolo della ribellione che pose fine alla guerra nel Vietnam. Andrebbe riproposta oggi, insieme alla mobilitazione di allora, per mettere fine allo scempio che la specie umana sta facendo del clima e dello stesso pianeta.

Soprattutto dopo le due conferme avute nel corso dell’estate: che il clima del pianeta è veramente cambiato e che, invece, la testa dei “potenti”, che dovrebbero decidere come mitigare ed adattarsi a questi cambiamenti, è rimasta sempre la stessa, confusa e prigioniera del dogma dell’eterna crescita.

Le conferme che ci sono state del cambio di clima sono impressionanti, così come quelle sull’l’immobilismo dei decisori politici, che si ostinano a mettere la testa nella sabbia e ad ignorare il riscaldamento globale.

L’uragano Gustav non aveva ancora finito di far danni e mettere in fuga da New Orleans milioni di persone, che già Hanna cominciava a uccidere e devastare Haiti seguito, in rapida successione, da Ike. Tutto in dieci giorni, veramente impressionante. Solo una classe dirigente irresponsabile può rimanere indifferente di fronte a tutto ciò, continuando a pensare che l’aumento degli eventi estremi sia solo un complicato ed opinabile modello matematico di previsione elaborato dagli scienziati dell’Ipcc e non la dura realtà da contrastare e con cui convivere.

Se qualcuno degli scettici nostrani cinicamente pensa che questo tragico susseguirsi di eventi non ci riguardi, perché gli oceani sono lontani, sarebbe il caso di ricordargli le anomale trombe d’aria di quest’estate, quella di Iesolo ad esempio, segnali inequivocabili che anche i piccoli mari si surriscaldano e si caricano di energia che prima o poi libereranno.

Se poi anche tutto ciò non bastasse si potrebbe consigliare di organizzare una crociera intorno al polo nord, ormai completamente circumnavigabile, con relativa caccia all’orso bianco alla deriva nell’artico.

Il susseguirsi di queste catastrofi sollecita una riflessione anche su un’altra questione, che dovrebbe suscitare indignazione e che invece passa nell’indifferenza generale dei media: la profonda ingiustizia delle politiche di adattamento alle conseguenze del cambio di clima.

In altre parole se si vive in un paese ricco, finanziariamente e tecnologicamente, è possibile adattarsi e quindi cavarsela, mentre se si ha la sventura di vivere in un paese povero non ci sono difese e si è in balia degli eventi.

Dovrebbero suscitare qualche interrogativo le immagini così contrastanti fra loro di New Orleans e Haiti, prima e dopo il passaggio degli uragani. Per gli abitanti della città della Louisiana questa volta (fra poco si vota) è stato possibile un prima, fatto di evacuazione di massa e misure di difesa, mentre per gli abitanti della poverissima isola c’è stato solo un dopo, fatto di fango, distruzione, e morti.

Solo facendo rientrare le politiche di adattamento nel negoziato globale è possibile cercare di porre riparo a questa profonda ingiustizia. La scadenza per il post Kyoto è fissata il prossimo anno a Copenaghen. In quella sede oltre ai nuovi obiettivi di riduzione dei gas serra andranno quindi definite le strategie e le risorse per l’adattamento ai cambiamenti climatici, facendo in modo che entrambe si ispirino a criteri di solidarietà e cooperazione.

Per riuscire a dare questo segno al vertice di Copenaghen del prossimo anno non basta segnalare i temi che vorremmo fossero messi in agenda, ma dalla mobilitazione che su di essi si riuscirà a costruire. Da questo punto di vista c’è molto da fare

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