[16/09/2008] Comunicati

Disastri dimenticati

ROMA. Se ne è parlato poco, in Italia. Ma mentre tra la fine di agosto e l’inizio di settembre i Caraibi inanellavano una lunga teoria di uragani capaci di catturare l’attenzione dei media almeno quanto di arrecare danni a uomini e cose, in Asia finiva inondato a metà lo stato di Bihar, uno dei più poveri dell’India. L’allagamento, avvenuto per colpa dell’uomo e per il tramite delle acque del Kosi, un affluente del Gange, ha riguardato un’area grande quanto l’intero Belgio e ha lasciato senza casa almeno 3 milioni di persone.

Il Kosi è, in genere, un fiume placido. Ma di tanto in tanto, come una fiumara improvvisa moltiplicata per mille, produce bibliche esondazioni. Quella verificatasi nei giorni scorsi e durata almeno tre settimane è la peggiore degli ultimi 50 anni. Pensate che il corso del fiume ha avuto un “salto” di 120 chilometri, recuperando il canale ormai in secco che aveva abbandonato 250 anni fa.

Insomma il Kosi non è affatto nuovo a questi scarti improvvisi e rovinosi. Eppure come assicurano in molti, compreso Dipak Gyawali – ex Ministro delle Risorse idriche e attuale capo della Fondazione per la conservazione delle acque del Nepal – l’impronta umana sul disastro è evidente. Per tre motivi.

In primo luogo perché sono stati gli uomini – cittadini dell’India e del Nepal – a voler erigere una diga nel 1956 per controllare l’acqua del Kosi. La diga fu costruita in sette anni. Peccato che un momento dopo fu dimenticata da tutti.

Sono stati ancora gli uomini – dell’India e del Nepal – a irreggimentare il fiume in canali sempre più stretti, facendo vertiginosamente aumentare l’altezza media delle acque. E incrementando, così, la probabilità di esondazioni.

E sono stati, infine, gli uomini – questa volta soprattutto Indiani – a stabilire regole per il governo del bacino idrico (il cosiddetto “Kosi project”) che affida alle autorità di New Delhi ogni e qualsiasi possibilità di intervenire sul fiume, anche in territorio nepalese, sottraendole di conseguenza alle autorità del paese indiano. In queste condizioni il fattore burocrazia diventa più a rischio delle grandi piogge.

Ed è così che, malgrado avvertimenti sempre più allarmati – ultimi in aprile – nessuno si è più curato del fiume, della sua portentosa capacità di trascinare a valle montagne di detriti e, di conseguenza, delle sue periodiche inondazioni dei territori circostanti.

La vicenda ci insegna due cose. Che per i media il mondo è ancora diviso alla vecchia maniera. Un uragano in Texas fa molto più notizia di un’inondazione nel Bihar, anche se il numero di persone esposte e le conseguenze sono di gran lunga peggiori nel secondo caso. E che la natura per generare disastri ha quasi sempre bisogno sempre della complicità dell’uomo.

Per tornare ai Caraibi. Pochi si sono chiesti perché gli stessi uragani provocano regolarmente più danni e morti ad Haiti (o persino negli Stati Uniti) che a Cuba. Beh, il motivo è molto semplice. A Cuba esiste un sistema di protezione civile efficace – sia nella prevenzione che nella gestione dell’emergenza. Ad Haiti no. E persino negli Stati Uniti non ancora (non ancora in maniera soddisfacente, almeno).

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