[16/10/2008] Comunicati

Crisi: guardare alla domanda futura per orientare le scelte del presente

LIVORNO. Mentre a metà giornata le Borse europee tentano un recupero dopo una pessima partenza, ma rimangono comunque ampiamente in territorio negativo, c’è chi oggi sostiene che la colpa degli economisti sia stata quella “di non averci avvertito” (Giovanni Sartori sul Corsera di oggi). Eppure negli ultimi anni sono stati molti gli economisti (Stern per esempio, addirittura il premio nobel Stiglitz, oppure il nostro Ruffolo) che avevano lanciato l’allarme su questo modello economico sbagliato, sul fatto che l´economia di carta stava divorando l´economia reale e su come fosse necessario rivedere il modello economico basato - come l´attuale - sul totem della crescita senza tenere in conto il capitale naturale e senza considerare la necessità di guardare al futuro anziché perpetuare il solito modello (secondo un recente studio dell’Economist il volume degli strumenti finanziari derivati oggi supera di circa undici volte quello del prodotto interno lordo mondiale).

La crisi finanziaria attuale, alla quale seguirà (e sta già seguendo) un’inevitabile crisi dell’economia reale, produrrà un processo di mutazione indispensabile: la finanza tornerà probabilmente a investire nell’industria e nell’economia reale. Ma il nocciolo di fondo allora è capire in quale industria dovremo investire? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Bonaccorsi professore di Economia e gestione delle imprese dell’università di Pisa.

«Possiamo immaginare nel medio termine i settori nei quali vi è un tasso di crescita più alto – spiega Bonaccorsi - tra questi sicuramente ci sono i beni a più alto contenuto immateriale e di conoscenza e i beni collettivi. Su questi ultimi credo sia interessante fare una riflessione. Non vi è dubbio che una parte dell’ondata tecnologica della fine del 900 abbia avuto tra i suoi fattori di lungo periodo anche l’onda lunga degli investimenti in tecnologie militari: pensiamo all’information tecnology, alla sensoristica, alla stessa genesi di internet prima del protocollo del Cern, pensiamo ancora ovviamente alla microelettronica. È abbastanza condivisa dagli osservatori la consapevolezza che tale onda non potrà proseguire e che allo stesso tempo l’innovazione tragga sempre più beneficio da una domanda pubblica con obiettivi di lungo termine che ha come oggetto principale la produzione di beni collettivi. Dov’è la differenza fondamentale? Che la spesa pubblica per ‘la difesa’ è per sua natura centralizzata e soggetta a stringenti vincoli di performance (come per esempio i requisiti di missione nelle tecnologie militari) e quindi può generare ricadute a lungo termine più facilmente identificabili. Invece molti beni collettivi moderni hanno natura distribuita e richiedono una forte interazione con utilizzatori a loro volta dispersi. Le faccio un esempio per essere più chiaro: pensiamo al problema della gestione delle acque. Non può essere solo un problema tecnologico, serve interazione continua con amministratori, popolazioni, gestori della infrastruttura…».

Non crede che ci siano casi imprenditoriali di successo anche nel pieno di questa crisi, come quelli scandinavi (citati paradossalmente da Adriana Cerreteli sul Sole 24 ore di oggi nello stesso articolo in cui esalta la posizione dell’Italia contro il pacchetto clima-energia dell’Ue), che indicano che scelte fatte guardando lontano, verso le rinnovabili e verso una riconversione ecologica dell’economia, hanno dato i loro frutti?
«Io credo che il vincolo energetico spingerà nei prossimi anni la ricerca e le applicazioni in maniera molto forte. I Paesi Scandinavi e la Germania che sono partiti prima con progetti integrati stanno già raccogliendo i primi frutti. Attenzione però che gran parte delle previsioni dice che la dipendenza da idrocarburi non è destinata a calare in modo sensibile almeno fino al 2020. Quindi occorre una riflessione condivisa tra governi imprese e cittadini per facilitare investimenti innovativi penso per esempio ai nuovi materiali fotovoltaici non a base di silicio, oppure alla energia eolica di ultima generazione ad azionamento diretto, senza riduttori».

La ricerca di base in Italia non dovrebbe essere indirizzata all’innovazione di processo e di prodotto orientata verso l’efficienza e il risparmio di energia e di materia?
«La ricerca di base italiana nei settori rilevanti per l’efficienza energetica e per le energie rinnovabili è di buona qualità nel panorama internazionale, penso alla ricerca sui materiali nel campo del fotovoltaico dell’Ifnm, del consorzio nazionale delle scienze e tecnologie dei materiali Cst e di St Microeletronics. Penso ancora ad alcune tecnologie eoliche e alla tradizione italiana nel geotermico e infine anche per l’idrogeno vi sono competenze importanti. Il problema è che le tecnologie diventano applicabili a fronte di progetti di sperimentazione e programmi di investimento pubblico e o favorito dalla programmazione pubblica. Occorrono cioè investimenti di lungo termine che non possono prescindere da un ruolo centrale del settore pubblico, sia nella programmazione che nella regolazione dei mercati. Non è un caso che i Paesi che stanno avendo i primi risultati in questo campo hanno fatto negli anni passati politiche integrate che hanno coinvolto la ricerca, le imprese e le amministrazioni locali.

La ricerca sui materiali sta producendo risultati di straordinario interesse anche per quanto riguarda i flussi di materia, riducendo il consumo di risorse naturali a parità di funzione, intendendo per funzione tutti i vari parametri ingegneristici come la durata, la durezza, la resistenza. Questa ricerca è da sola una fonte di miglioramento ambientale importantissima, pensiamo alla riduzione del peso delle auto oppure alla sostituzione di materiali scarsi in natura.

Per questi motivi io credo che la soluzione ai problemi della sostenibilità che ritengo centrali, non vadano nel senso della decrescita, bensì nel riposizionamento degli sforzi tecnologici verso settori a domanda collettiva più pronunciata, che richiedono orizzonti temporali più lunghi di quello che tipicamente accade nei beni privati e di consumo. Questo però comporta necessità di investimento sia delle imprese che del settore pubblico, che ha proprio il compito di guidare questo riorientamento secondo la domanda futura».

Niente "dinamismo autonomo dell´economia lasciato a sè stesso" dunque. Guardare alla domanda futura, significa che è sbagliato considerare troppo costosi gli obiettivi europei del pacchetto clima-energia, come ha tentato di fare il governo italiano?
«Non sono un esperto di Kyoto, ma ritengo che la crisi non possa essere un pretesto e che sia nell’interesse del paese mantenere gli obiettivi di Kyoto. Successivamente è opportuno avviare un’iniziativa internazionale che tenga conto sia dei nuovi scenari economici, sia del perdurante squilibrio fra paesi emergenti e paesi sviluppati sanando le differenze eclatanti tra coloro che hanno aderito e coloro che finora non hanno firmato il protocollo di Kyoto».

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