[31/10/2008] Comunicati

Senza ricerca l´università è a tempo determinato. Come lo sviluppo del Paese

LIVORNO. «In tre anni l’Università in Italia scomparirà, questo è un colpo contro lo sviluppo e quindi anche contro quello sostenibile». Marcello Buiatti presidente della Fondazione Toscana Sostenibile e professore ordinario- quindi parte in causa - di genetica presso l´università di Firenze, riassume così a greenreport che cosa significa – in negativo - la Finanziaria 2009 per la ricerca in Italia. E perché dunque il mondo universitario sia sulle barricate.

Per cambiare, o cercare di cambiare, un modello economico come il nostro dissipatore di risorse ed energia, la ricerca, la formazione, lo studio in generale sono le fondamenta. Senza le quali non si può costruire niente che assomigli a una riconversione ecologica dell’economia, ma neppure per un’economia semplicemente più soft. Senza ricerca (e successiva applicazione tecnologica e industriale) per dirne alcune non c’è miglioramento dell’efficienza energetica, non ci sono pannelli fotovoltaici, non ci sono raccolte differenziate, materiali biodegradabili, pale eoliche. Senza ricerca non ci sono neppure le figure professioni necessarie per far sì che tutto quello che abbiamo detto prima funzioni, sia sottoposto a controllo, sia riparato. Senza ricerca non ci può essere innovazione, neppure quella che se ne infischia di migliorare i processi produttivi e i prodotti a minor impatto ambientale.

Per questo la Finanziaria 2009 che è proprio la Legge 133 già approvata è una mazzata anche (per non dire soprattutto) per chi lavora e crede in un modello economico diverso, ecologico e socialmente più sostenibile. Ricordiamo solo alcuni dati per far capire (a chi magari si fosse distratto) perché in questi giorni le università sono in subbuglio: la previsione per il triennio 2009-2011 per il fondo di finanziamento ordinario vede un leggero incremento per il 2009 (circa 73 milioni in più del 2008) al quale corrisponde nel 2010 un taglio di 731 milioni rispetto al 2009, che diventano 863 nel 2011. Tra i primi di agosto (approvazione della Legge 133) e il 30 settembre i tagli sono raddoppiati.

Sommando l’inflazione attesa con la riduzione in valori assoluti del Fondo, si disegna uno scenario in cui il finanziamento fondamentale dell’Università si riduce di circa un terzo. Vengono inoltre tagliati i fondi per la programmazione triennale (-28,5 mil. nel 2010), nonché quelli per il diritto allo studio (-43,5 mil. nel 2010, tanto su quel versante stiamo più che bene tra gli ultimi in Europa).

Una situazione disastrosa della quale abbiamo parlato appunto con Marcello Buiatti.
«I tagli sono stati pesanti – comincia – su questo non c’è dubbio. Faccio un esempio: quando si vince un bando di ricerca, si vince con un piano in cui si scrive quanti soldi servono per fare la ricerca stessa. Ecco di quei soldi il 40% ora è in meno, per cui quella ricerca non puoi più farla. Oppure devi fare dei tagli e magari sei costretto proprio a tagliare il ricercatore. Bisogna insomma arrampicarsi sugli specchi. E questo succede a tutti. Una serie di gruppi di ricerca già è chiuso e altri gruppi stanno chiudendo. Io no, ma solo perché fino ad oggi ho avuto la fortuna di ricevere finanziamenti soprattutto dall’estero. Da anni siamo in competizione per contenderci l’ultimo posta per i finanziamenti alla ricerca con il Portogallo, che a questo punto ci lascerà sul fondo. Ma non è tutto».

Dica
«Negli istituti di ricerca ci sarà una riduzione drastica e molto pesante di posti fissi: entro 3 anni circa, quasi il 50% dei professori andrà in pensione. Nella legge c’è scritto che dei soldi che guadagnano va risparmiato l’80% che quindi resta allo Stato, mentre per nuovi professori si deve fare con il restante 20%. Questo significa che se vado in pensione io, che sono al massimo della carriera, con il 20% del mio stipendio non è sufficiente a pagare nemmeno un ricercatore. Anzi, nemmeno un dottorando. Va poi aggiunto il tetto del turn over posto al 20%. Così messi insieme tagli e turn over significa che il ricambio non sarà neppure del 20%, ma si e no del 10-12%. Un nuovo professore su dieci che vanno in pensione. Così non si chiudono solo i corsi poco frequentati, ma vanno in crisi le Università grandi. Anzi queste saranno quello che soffriranno di più».

Tutto questo andrà a favore delle Università private…
«Non è vero neppure questo, perché le Università private in Italia sono pochissime, è una balla anche questa. C’è la Luiss e poche altre, perché anche quelle cattoliche hanno finanziamenti statali. Qui si torna agli anni Cinquanta dove all’università ci andava solo l’elite dell’elite. E ad avere le conseguenze peggiori saranno tra l’altro quei corsi che prevedono dei tirocini, delle sperimentazioni con le manine, proprio quei corsi che interessano a noi legati alla sostenibilità ambientale. Penso all’ingegneria, a chi deve far pratica per la costruzione di pannelli fotovoltaici o pale eoliche. E’ un disastro qualitativamente diverso persino da quello che tanto osteggiammo della Moratti, che infatti non ci chiuse. Con questo invece finisce tutto».

Che cosa si doveva invece fare secondo lei, dato per vero che nell’Università gli sprechi ci sono.
«Gli sprechi ci sono e lo sanno tutti, ma sono dati principalmente dalla proliferazione delle università che è proprio della storia italiana. Università aperte anche dove c’erano pochissimi studenti. Queste andrebbero proprie chiuse, oppure riaccorpate. Penso ad Empoli ad esempio, ci sono gli stessi docenti di Firenze, con un accorpamento il risparmio sarebbe notevole. Ma niente di questo è in programma da nessuna parte. L’impressione è che sia stata in teoria un modo per favorire le università privata, ma come le ho detto non è solo questo. Mentre infatti all’estero la ricerca è finanziata per 2/3 dai privati e per 1/3 dallo Stato, da noi accade esattamente il contrario. Nei paesi in via di sviluppo, penso alla Cina e all’India, investono un’enormità nell’innovazione e nella ricerca perché sanno che il futuro passa da lì. Questo insomma è un colpo contro lo sviluppo del paese».

Chi in questi giorni è sceso in piazza per difendere l’università è stato additato come qualcuno che vuole difendere i baronati, piaga questa che in Italia effettivamente esiste e mina la credibilità dell’università stessa.
«I baronati ci sono e ci sono sempre stati. Un barone è uno particolarmente potente che ha molti amici è che poi assume più persone, compresi figli e parenti. Schifezze insomma. Ma qui si poteva fare come all’estero, dove il problema dei baronati infatti non esiste. All’estero vincere il bando significa che il progetto è di qualità, ma alla fine del progetto se non è riuscito i soldi per quello successivo non si prendono. In questo modo i professori hanno tutto l’interesse ad assumere gente brava, perché altrimenti i progetti non funzionano e i soldi non arrivano. Sarebbe semplicissimo, ma qui devo dire che sono colpevoli anche i miei colleghi perché tutta la discussione è stata fatta all’interno e la reazione è stata di tipo corporativo, come accade ovunque. Una commissioni fatta con esperti esteri e sanzioni per chi non finisce un progetto toglierebbe di mezzo ogni polemica, baronati compresi».

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