[03/11/2008] Monitor di Enrico Falqui

Pensare al futuro

FIRENZE. Il XX secolo è stato percepito come il periodo nel quale la “velocità” della Tecnologia ha creato la “quantità” delle merci e tale disponibilità ha trasformato il mercato, che è divenuto “massa”.
Possiamo chiamare questa sequenza di impulsi creatori dei consumi di massa a livello globale con vari termini: progresso, crescita, divenire o sviluppo.
Qualsiasi termine scegliamo per descrivere questo “movimento” (uso) della tecnologia, sappiamo che il XX secolo ha addirittura superato il “muro della storia”, raggiungendo uno stadio universale del tempo, che definiamo contemporaneità.

Era stato il fisico francese Henry Poincarè, nel 1902, a intuire per primo che “…l’uomo non ha alcuna percezione diretta dell’uguaglianza di due intervalli di tempo e coloro che ritengono di averla sono vittime di una mera illusione.”
In realtà, nei tempi passati, il tempo regolava il corso della Natura ed era divenuto lo strumento attraverso il quale essa impediva che tutto avvenisse nello stesso momento, cioè “contemporaneamente”.
Questo concetto era servito a Poincarè per affermare che “ la contemporaneità di due eventi che accadono in due luoghi diversi dipende dal riferimento “e che quindi non esiste il tempo assoluto.”
Questa fondamentale intuizione di Poincarè sta alla base del principio della relatività per la quale le leggi dei fenomeni fisici devono essere le stesse sia per un osservatore fermo che per un osservatore che si muove con una traslazione uniforme.

Dunque, si può concludere che il tempo non è solo l’unico intervallo che possiedi, ma è un intervallo di tempo di cui hai il possesso proprio in questo momento.
Quando parliamo di “contemporaneità” dobbiamo essere consapevoli che ci riferiamo a una categoria concettuale che ci fornisce il limite, ad esempio, di non poter conoscere nello stesso intervallo di tempo tutti gli abitanti di questo pianeta, ma che niente, oggi, ci può impedire di conoscere tutte le persone con cui desideriamo entrare in contatto.
Le uniche persone con cui non possiamo entrare in contatto sono quelle che appartengono al passato o che vivranno in futuro.

In un bel libro di Roberto Moro (“Novecento”, 1999), l’autore ci fornisce una suggestiva definizione di “modernità”, ovvero che “essa avrebbe il compito di togliere il tempo alla storia per restituirlo agli uomini ;…n el XX secolo è accaduto che la quantità, la velocità e la densità degli eventi, nonché il sistema istantaneo di comunicazioni che li veicola e li propaga, hanno reso possibile la fruizione del tempo, indipendentemente dal canone interpretativo della Storia universale”.
E ancora: “…nel corso del XX secolo l’umanità ha conseguito massa e intensità bastevoli per un nuovo big bang nel quale si producano particelle finalmente incoercibili dal potere della storia e libere navigatrici di un tempo tutto decolonizzato e desacralizzato.”

Se questa definizione di “modernità” fosse aderente al momento storico che stiamo vivendo, la domanda affascinante alla quale dovremmo prepararci a rispondere è la seguente:
“Che cosa c’è dopo la modernità?” e soprattutto “quale nuova dimensione del tempo e quindi del potere si incontra “oltre il muro della Storia”, termine con il quale il filosofo francese Jean Baeudrillard ha definito il secolo appena concluso?
Di fronte a questa domanda ci troviamo impreparati a rispondere, cadendo nella banalità di affermare che “ il dopo della modernità” è il post-moderno.

Questo termine è già entrato nell’uso corrente del linguaggio economico ed urbanistico (economia e città post-moderna), introducendo un errore strategico che impedisce di guardare al futuro con l’ottimismo con il quale Roberto Moro ha provveduto nel suo saggio (“Novecento”) a desacralizzare il tempo come “racconto esclusivo del destino dell’uomo e a impedire che la modernità, narrando la storia universale finisca per divorare sé stessa”.

Affermare l’esistenza della “ post-modernità” significa concepire un’impossibile separazione della storia dal tempo, significa negare il principio di relatività intuito da Poincarè, significa escludere la categoria della “ contemporaneità” come unico orologio del tempo che l’umanità è in grado di misurare e valutare. Significa porre l’umanità nella condizione peggiore per guardare al futuro, privandola dell’unico strumento che essa è in grado di utilizzare per valutare il passato attraverso la memoria.

Pensare al futuro significa, invece, avere delle visioni, concepire delle immagini interiori di come potrà essere, ad esempio, la città in cui vivi e poi provare a progettarle e a realizzarle.
Mentre visitavo le piattaforme, predisposte all’interno dell’Arsenale di Venezia in occasione della Biennale di Architettura di quest’anno, con le quali molti importanti architetti contemporanei hanno proposto “suggestioni progettuali” per la città del futuro, mi è accaduto di soffermarmi a meditare sulle emozioni e immagini interiori che tali progetti producevano su di me.

Mi sono accorto di essere “dominato” da quelle immagini interiori e più quelle immagini erano concrete e cariche di emozioni (come di fronte all’opera in legno di F.Gehry), più ne ero dominato.

In altre parole, mi accorgevo di essere dominato dalla preoccupazione che le molte buone idee esposte all’interno di questa rassegna internazionale, venissero soffocate dalla miriade di problemi che ciascuno di quei progetti trascina con sé. In particolare, le domande più frequenti che mi ponevo erano: quale di questi progetti di architettura sarebbe servito, al momento della sua realizzazione in una concreta città, a rendere maggiormente sostenibile lo sviluppo di essa? Come classificare in modo diverso da un’assurda “valutazione” del grado di modernità di ciascuno, i progetti scaturiti dalla concreta realizzazione di buone idee dell’architetto autore?

La risposta a questi quesiti è la stessa che dobbiamo fornire quando ci interroghiamo su cosa ci sia dopo la modernità: una nuova dimensione del tempo ottenuta con l’unico strumento per noi disponibile e del quale conosciamo bene il funzionamento. Lo strumento è “ la memoria”, di cui ci serviamo sempre per analizzare il passato, ma che dobbiamo imparare a utilizzare quando immaginiamo il nostro futuro, quello della città in cui viviamo o della società in cui operiamo.
Dobbiamo rovesciare il tempo, spingendo la nostra fantasia e creatività ad immaginare quale sarà la città in cui viviamo, ad esempio, tra dieci anni e provare a capire come ci sei arrivato, quali passaggi intermedi sono stati necessari, utilizzando la “memoria” del passato per ricostruire quanto ancora deve essere progettato ed attuato.
I fisici chiamano questo processo “backcasting”, ovvero l’esatto contrario di “forecasting”: la capacità di prevedere il futuro dipende da quanto siamo allenati a ricordare bene il passato.

Mentre era in un campo di concentramento nazista ed aspettava di essere giustiziato, il teologo tedesco Dietrich Bonhoffer ci lasciava questo messaggio, contro il pessimismo del mondo occidentale nei confronti del futuro, ancora oggi così straordinariamente presente nel nostro Paese e che rischia di travolgere l’animo delle nuove generazioni:
“Nella sua natura l’ottimismo
non è comprensione della situazione attuale,
ma una forza vitale,
una forza per sperare dove altri si rassegnano,
una forza per superare gli impatti,
una forza che non vuole abbandonare il futuro ai pessimisti,
ma lo reclama per la speranza”.

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