[05/11/2008] Comunicati

Maracchi a greenreport: «Manca un rapporto Stern italiano»

FIRENZE. Il convegno “Che tempo che... farà”, tenutosi ieri a Firenze, ha affrontato tematiche legate prevalentemente alla prevenzione del rischio idrico e idrogeologico. A 42 anni dall’alluvione di Firenze, e 12 stagioni dopo l’inondazione di alcuni paesi apuani, abbiamo visto che ancora molto è da fare, sia in direzione della messa in sicurezza del territorio, sia verso la diffusione di una cultura della prevenzione che, se applicata e incentivata, può diventare anche un fondamentale volano occupazionale.

Il convegno è stato preceduto da un intervento di Giampiero Maracchi, ordinario di climatologia all’università di Firenze e direttore dell’istituto di Biometeorologia (Ibimet) del Cnr. Maracchi ha fatto un rapido riesame delle evidenze e delle conseguenze del surriscaldamento climatico, sia su scala mondiale sia riferito alla più ristretta prospettiva locale riguardante la regione Toscana. Sono quindi risuonate nelle sale del convegno le già conosciute – e ormai appurate – variazioni nel sistema climatico associate al surriscaldamento globale, come l’aumento degli scambi meridiani a scapito del flusso zonale (cioè latitudinale) delle masse d’aria, il conseguente incremento del trasporto di calore dai tropici verso le medie latitudini (cella di Hadley), l’aumento dei fenomeni estremi su scala locale («bombe d’acqua») e globale (es. la maggiore intensità degli uragani tropicali), e in generale tutte le conseguenze di cui ormai anche l’opinione pubblica meno informata ha comunque un’infarinatura: più gas serra in atmosfera significano più energia in gioco. Più energia in gioco significa un mutamento delle correnti d’aria su scala globale. Ciò comporta una ridistribuzione dei sistemi anticiclonici, cioè delle arie di alta pressione intorno alle quali si muovono le aree cicloniche, cioè le basse pressioni. La fine di questa reazione a catena è osservabile a livello locale, e in Toscana ciò significa, ad esempio, una differente distribuzione delle piogge rispetto al passato (in particolare una diminuizione delle giornate di pioggia autunnali, a cui fanno poi seguito precipitazioni concentrate nel tempo, come dimostra questo autunno dove ad un mese di siccità dal 27 settembre al 28 ottobre è seguito l’aprirsi delle cateratte del cielo su gran parte della Toscana nei giorni scorsi) e l’aumento delle ondate di calore estive. Abbiamo contattato il climatologo toscano al fine di approfondire alcuni aspetti ancora non del tutto chiari, almeno alla gran parte dell’opinione pubblica.

Professor Maracchi, il surriscaldamento climatico, lo sappiamo, influisce sul numero dei cosiddetti “eventi estremi”, per esempio riguardo alle piogge intense su scala locale, a causa dell’energia in gioco e dei cambiamenti al regime delle correnti atmosferiche. Ma esiste una correlazione globale tra i gas serra in atmosfera e la quantità di pioggia che cade su tutto il pianeta? Il cambio climatico causa, cioè, anche un’alterazione dei regimi pluviometrici globali dal punto di vista quantitativo?

«Su scala globale non c’è un legame tra cambio climatico e regimi pluviometrici. L’aumento di energia modifica la posizione dei centri di alta pressione, e questo è tutto. La distribuzione delle piogge dipende dalla circolazione generale dell’atmosfera. Ciò che cambia è che negli ultimi anni ci sono variazioni più repentine tra fasi di caldo e di freddo. Questo in conseguenza dell’aumento degli scambi meridiani, cioè longitudinali».

E questo, come sappiamo, causa l’aumento delle ondate di calore estivo alle nostre latitudini, poichè l’anticiclone libico si spinge più a nord (con un movimento, appunto, longitudinale) a scapito del più fresco anticiclone delle Azzorre. Ma per quanto riguarda le discese di aria fredda da nord? Esistono studi riguardanti il regime delle Rodanate (discese di aria polare a ovest delle Alpi) o delle discese di aria fredda dalla porta della Bora, a est delle Alpi?

«Si e no. Riguardo al numero di discese di aria fredda non ci sono dati scientifici appurati, se guardiamo la distribuzione delle masse d’aria possiamo notare una diminuizione del numero delle giornate di tramontana, ma non abbiamo molto altro. Anche per quanto riguarda la dinamica del Vortice polare (cioè la massa d’aria fredda e perturbata che è costantemente presente alle alte latitudini, e il cui saltuario allungamento sul mediterraneo è all’origine di buona parte degli eventi piovosi sulla penisola, ndr), è difficile identificare i parametri adatti. Il problema per questo tipo di configurazioni bariche è che non esiste un indice preciso, sostanzialmente esistono solo osservazioni empiriche».

Parliamo adesso della Toscana. La nostra regione, la cui economia è in buona parte basata sul turismo e sul settore agro-silvo-pastorale, è in prima linea davanti agli effetti del cambiamento climatico. La domanda potrà apparire banale, ma... che cosa dobbiamo temere di più, nella nostra regione? Le alluvioni, le ondate di calore, la diminuizione della copertura nevosa in Appennino, o cos’altro?

«Naturalmente sono tutti effetti possibili. Comunque temo soprattutto gli eventi meteorici estremi. Poi le ondate di calore. Infine, per l’Abetone e per l’Appennino tosco-emiliano il rischio è la continuazione delle tendenze climatiche attuali».

Negli ultimi anni va detto che – a parte il terribile inverno 2006-07 - sull’Appennino i regimi nivometrici sono ritornati più che accettabili per l’industria turistica.

«Naturalmente va chiarito ancora una volta che il clima ha una dinamica “a gradini”, cioè esistono delle fasi in cui si hanno variazioni repentine e fasi in cui si ritorna a regime. Ad ora siamo in una fase “a regime”. Poi, come già detto, occorre evidenziare come la sostanza di tutti i fenomeni è una mutazione della circolazione atmosferica, ma le conseguenze future sono in buona parte ancora da appurare. L’errore più tipico, nell’analisi climatica, è attribuire una valenza lineare ad un sistema come l’atmosfera, che è invece come sappiamo “caotico”, cioè la cui evoluzione non è calcolabile tramite il ricorso a sistemi lineari. Questo è un equivoco di fondo che riguarda anche le previsioni per il clima futuro contenute nel quarto rapporto Ipcc, previsioni che sono in buona parte basate su sistemi lineari».

Ma, al di là della patetica contrapposizione in corso nel nostro paese (e non solo) tra “catastrofisti” e “negazionisti”, il quarto rapporto Ipcc è a suo parere improntato ad un esagerato ottimismo, ad un eccessivo pessimismo, o cos’altro?

«Né ottimista né pessimista, direi. Esiste un problema macroscopico globale, su cui le conoscenze sono però ancora abbastanza modeste. Il sistema climatico, così come quello economico, è molto complesso. L’atteggiamento più logico da perseguire è continuare a fare ricerca, a pubblicare studi e rapporti. Sull’immediato, cosa possiamo fare? Non mi sento di criminalizzare l’atteggiamento che il Governo Berlusconi sta avendo riguardo alla questione climatica, o meglio non sarei contrario in partenza se la posizione italiana fosse improntata ad una ridiscussione scientifica dei vincoli da imporre, per non gravare troppo sull’industria e l’economia: il problema è che l’obiettivo è solo risparmiare. Ma ragionare in termini di spese e fiscalità generale significa anche considerare il rischio che, se le cose andassero al peggio, fino all’80% della fiscalità generale sarebbe da riversare sulla riparazione dei danni. E’ un problema che si pone anche riguardo alla questione dei rifiuti, in termini di impatti. Come spesso ripeto, il clima è solo l’avvisaglia di un più generale problema ambientale».

Supponiamo allora che fosse lei a sedere sullo scranno del presidente del consiglio della repubblica italiana. Cosa farebbe?

«Direi: facciamo un ragionamento serio sulla questione. Diamo più spazio all’analisi del problema, disegniamo un quadro più ampio. Finora non c’è stata sufficiente attenzione dai ministri dell’ambiente che si sono succeduti negli ultimi anni, e mi riferisco sia a Matteoli che a Pecoraro Scanio. Finora la politica climatica sembra fatta più dal direttore generale del ministero, più che dai ministri.

Poi farei i conti: cosa pagheremmo adesso in termini di fiscalità generale se ottemperassimo alle scelte europee? E cosa pagheremmo invece non adeguandoci? Il problema è che questo ragionamento andava fatto anni e anni fa, come è avvenuto in Germania e in altri paesi».

Insomma, possiamo dire che manca un “Rapporto Stern italiano”?

«Esatto. Io l’ho già sostenuto in passato, ma sembra che ragionamenti di questo tipo siano al di fuori della filosofia nazionale: non abbiamo fiducia nella ricerca e – mi creda – non lo dico perchè sono un ricercatore io stesso. Manca una mentalità moderna, pragmatica, forse per provincialismo, forse perchè abbiamo un’economia legata alla dimensione locale. Occorrerebbe una cultura diversa, e una fiducia nella ricerca che non abbiamo, nel nostro paese».

In chiusura: abbiamo tanti e concordanti indizi riguardo alla significatività del ruolo antropico nel surriscaldamento globale. Ma ancora manca una vera “pistola fumante” che ci possa permettere di dire “ecco, l’uomo influisce per il 20%, per il 50%, per il 70% ecc. rispetto alle forzanti radiative di origine naturale”. Scopriremo, un giorno futuro, questa pistola fumante? Avremo delle percentuali effettive che davvero mettano fine al tempo dei dubbi e diano inizio all’epoca del “adesso non abbiamo più scuse”?

«Insisto: il problema non va posto in questi termini, il clima non è “il problema” ma “uno dei problemi” associati alla questione ambientale, e forse non è nemmeno la catastrofe principale, se pensiamo al problema dei rifiuti. In futuro dovremo spendere molte risorse economiche e naturali, per mantenere il nostro livello di benessere, e non sono neanche sicuro che i sistemi capitalistici reggeranno alla prova che ci attende. Economie come quella cinese mi sembrano più corazzate per quanto riguarda il futuro. Comunque vedremo.

Riguardo più specificatamente alla sua domanda, occorre considerare che già ora il 93-94% dei ricercatori concordano sulla significatività del ruolo antropico. Il problema è la quantità di ipotesi negazioniste senza nessun fondamento che vengono introdotte ad arte nel dibattito, in particolare da alcuni siti internet americani creati a questo scopo. E invece occorre buonsenso: se la National oceanic and atmospheric administration (Noaa), uno tra i principali centri di ricerca climatologica dove lavorano 25.000 persone rispetto alle circa 400 che sono occupate nel servizio meteo italiano, solleva il problema e lo pone come significativo, dobbiamo credere che sono tutti pazzi? È possibile che il servizio meteo finlandese apra un sito esplicitamente dedicato all’analisi delle problematiche legate al Global-warming? Sono pazzi anche i finlandesi, sono pazzi tutti?

Abbiamo, come sappiamo, questo dato macroscopico per cui la CO2 atmosferica, che in 400.000 anni era salita da 200 a 280 ppm, negli ultimi cento anni è cresciuta della stessa quantità, fino agli attuali 384 ppm. E il forcing radiativo della CO2 (media 1,66 W/mq, secondo il quarto rapporto Ipcc, ndr) lo sappiamo con precisione. Quindi, perchè tutti questi dubbi? Poi, è chiaro che passare da questo dato evidente al dire che la cella di Hadley si espande di conseguenza, è piuttosto complicato. Ed è anche notorio come in climatologia esistano altri elementi che possono influenzare il clima globale, ed è giusto considerare che alcuni di essi vanno in direzione opposta al forcing causato dai gas serra, che non fa altro che sovrapporsi ad essi. Ma – e questa è un’altra domanda che vorrei avanzare al presidente Berlusconi - il principio di precauzione che fine ha fatto? In altre nazioni, come in Germania dove fin dal 1993 è stata creata un’agenzia apposta per studiare il problema, i centri di ricerca sono sostenuti dal governo, che si appoggia a queste strutture per poi prendere le proprie decisioni politiche: situazione ben diversa da cosa avviene nel nostro paese, dove davanti a questioni scientifiche di questa portata il tipico modo di agire è... chiamare un paio di amici, e sentire cosa ne pensano».

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