[12/11/2008] Consumo

Lezioni di economia (6)

Il ciclo capitalista e l’attuale crisi finanziaria
Abbiamo visto che per una economia intrappolata in un equilibrio di sotto-occupazione si rendono necessarie sia una politica di spesa finanziata con emissione monetaria (e contenuta entro limiti non inflazionistici) che una politica industriale volta ad accrescere la competitività delle imprese nazionali, a sostenerne e stimolarne i processi innovativi. Dal momento che tali processi non si possono avviare senza forza lavoro qualificata, anche la formazione del capitale umano deve rientrare nella politica di spesa qui invocata. In sintesi, una spesa pubblica non inflazionistica per l’innovazione, la ricerca e la formazione del capitale umano. Anche qui non ci si può esimere da un’amara osservazione: l’Italia è fra i paesi OCSE che spendono meno in questa direzione, tanto in termini di spesa privata che in termini di spesa pubblica. Le priorità cui vengono destinati i fondi pubblici sono altre. Sta qui la ragione prevalente e in fondo ovvia del declino di questo paese. Come si innesta su questo declino la vicenda più attuale della crisi finanziaria? Una vicenda che naturalmente ha avuto origine altrove e che tuttavia sta colpendo anche il nostro paese. Credo valga la pena ripescare un vecchio e interessante lavoro di Domenico Delli Gatti e Mauro Gallegati per provare a razionalizzare ciò che sta accadendo. Secondo i due autori, appartenenti al filone di pensiero della cosiddetta Nuova Macroeconomia Keynesiana, il ciclo economico capitalistico è caratterizzato dal susseguirsi di quattro fasi: “ripresa tranquilla e finanziariamente solida”, “boom euforico e finanziariamente fragile”, “recessione tranquilla e finanziariamente solida” e, infine, “depressione con debito”. Cominciamo dalla prima fase del ciclo. Nel corso di una ripresa economica gli investimenti crescono e perciò, per via del classico effetto moltiplicatore keynesiano, cresce anche il reddito. A sua volta, l’aumento del reddito pernmette alle imprese di trattenere profitti più elevati, ciò che di per sé stimola ulteriori investimenti (se non altro perché i profitti non distribuiti e trattenuti all’interno dell’impresa costituiscono una sorta di garanzia reale e perciò facilitano l’accesso al credito). Se i risparmi di impresa (i profitti non distribuiti) crescono più rapidamente degli investimenti, ne segue che la domanda di credito esterno da parte delle imprese si contrae e si allentano le tensioni sul mercato del credito: il tasso di interesse diminuisce e con esso gli oneri finanziari a carico delle imprese. Se i profitti aumentano e le imprese ne distribuiscono una frazione sostanzialmente costante in forma di dividendi, ciò significa che anche i dividendi stessi aumentano. Il pubblico sarà perciò indotto a detenere meno moneta in forma liquida e a sostituirla con azioni, i cui corsi perciò aumenteranno. In sintesi, si tratta di una fase in cui investimenti, reddito, autofinanziamento delle imprese e corsi azionari mostrano tutti un andamento positivo. Simultaneamente, i tassi di interesse e gli oneri finanziari a carico delle imprese si riducono. Una ripresa tranquilla e finanziariamente solida, appunto. Tuttavia, proprio grazie alle evoluzioni appena descritte, lo “stato di fiducia” delle imprese può migliorare al punto da indurle ad aumentare la domanda di investimenti in misura superiore alla crescita dell’autofinanziamento. In tal caso si acuiscono le tensioni sul mercato del credito, ciò che conduce ad un aumento dei tassi di interesse e a un appesantimento degli oneri finanziari. Siamo passati ad un boom euforico e finanziariamente fragile. Ed è proprio la fragilità finanziaria, il carico di interessi che le imprese pagano al sistema bancario, a poter innescare una fase recessiva : per quanto le imprese trattengano profitti, l’aumento degli oneri finanziari comincia a ridurre le possibilità di autofinanziamento e perciò a rallentare il ritmo di investimento. Inoltre, nella misura in cui le imprese cercano di ridurre i dividendi distribuiti per far fronte alle difficoltà finanziarie, la domanda di azioni casca e con essa i corsi azionari. A sua volta, la caduta dei corsi azionari disincentiva ulteriormente la domanda di investimenti espressa dalle imprese: quando le azioni sono basse si fanno scalate, non si installa capitale di nuova produzione. Il rischio di ogni recessione è che, una volta partita, si avviti su se stessa. Se le imprese, mosse dal tentativo di non peggiorare la loro situazione finanziaria, attuano una politica di investimento ancora più prudente (ciò che costituisce una strategia assolutamente ragionevole dal punto di vista della singola impresa), la riduzione dei profitti nell’intero sistema economico può essere tale che le possibilità di autofinanziamento si riducano ancora più rapidamente degli investimenti stessi. In tal caso, aumenterebbe il fabbisogno di finanziamenti esterni per finanziare i pur bassi investimenti e l’economia si troverebbe in una depressione con debito: investimenti, redditi, occupazione e corsi azionari in fase discendente, oneri finanziari a carico delle imprese in fase ascendente. Nel momento in cui, con preoccupante consenso, tutti ci dicono che l’attuale crisi assomiglia a quella del 1929, io credo che l’idea implicita – e a mio giudizio corretta – sia che ci troviamo in una fase di depressione con debito. I segnali, lo ripeto, sono purtroppo quelli: investimenti, redditi, occupazione e corsi azionari in calo, oneri finanziari a carico delle imprese in aumento. Da una situazione del genere si può uscire in due modi. O, semplicemente, si aspetta: prima o poi il calo degli investimenti diventa così rilevante da ridurre ogni tensione sul mercato del credito. Oppure, come correttamente si dice, si deve chiedere al sistema bancario un di più di sforzo espansivo, e naturalmente la responsabilità è della BCE.

Conclusioni
In questa riflessione ho cercato di sostenere che l’Italia sta attraversando una duplice crisi: una crisi strutturale, dovuta alla rinuncia oramai ventennale ad una politica di spesa non inflazionistica per l’innovazione, la ricerca e la formazione del capitale umano; e una crisi ciclico-finanziaria. Stiamo sperimentando i duri effetti della seconda. Tuttavia, credo che essa sia temporanea, diciamo una sia pur durissima fase del ciclo economico connaturato al funzionamento di tutte le economie capitaliste. La crisi più grave è la prima. Ho cercato di argomentare che non ne usciremo se non prenderemo sul serio Keynes. Non il “keynesismo bastardo o criminale” (efficace espressione di Marcello de Cecco), ma il keynesismo per bene, quello della Teoria Generale. Non i soldi pubblici per incentivi a settori in declino, non i soldi pubblici per sanare debiti privati, ma una politica di spesa orientata nelle direzioni già indicate. Non c’è alcun dubbio che negli ultimi 20 anni gli USA siano stati molto, molto più keynesiani dell’Europa, in termini di politica fiscale e soprattutto di politica monetaria, quella politica monetaria che, come ho cercato di argomentare, costituisce il cuore dell’insegnamento keynesiano. Negli ultimi 20 anni il reddito pro capite USA è cresciuto più rapidamente di quello europeo, lo stesso dicasi per la produttività del lavoro. Possiamo continuare a raccontarci la barzelletta della flessibilità, ma anche i Europa le imprese quando vanno male possono licenziare (e ci mancherebbe altro). Possiamo anche sottolineare che il reddito pro capite USA è distribuito molto male. Vero, ma - al di là del fatto che sarebbe meglio che ad avanzare questa obiezione non fosse un italiano – si tratta evidentemente di un altro problema. Il punto è che da due decenni l’Europa ha completamente scordato gli insegnamenti di Keynes, si è attaccata a “parametri” privi di un significato economico intellegibile (si veda la sezione a ciò dedicata) e nel frattempo ha perso terreno.

(6 - fine)

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