[17/11/2008] Consumo

Tinacci: «Ripensare la logica perversa del Pil»

LIVORNO. «Come diceva Georgescu-Roegen, se c’è una produzione dissipatrice di risorse è quella bellica. Ecco, dal G-20 mi aspetterei un messaggio del tipo che da ora in avanti non si passa più dal linguaggio delle armi: anche per l’ambiente sarebbe una scelta determinante». E’ una delle più sentite speranze che Maria Tinacci Mossello, professore ordinario di Politica dell’ambiente nella Facoltà di Economia di Firenze confida a greenreport.it presentando la sua ultima fatica “Politica dell’ambiente. Analisi, azioni, progetti”, pubblicato da pochi giorni da il Mulino.

Il primo incontro del G-20 si è appena concluso ed il prossimo è stato fissato ad aprile. Senza Barak Obama si è trattato di un vertice ‘monco’ che di fatto dal punto di vista delle scelte economiche ecologiche, ma anche su quelle solamente economiche-finanziarie, ha di fatto lasciato il tempo che ha trovato. Non è detto, però, che di qui a marzo le cose cambino, ma servirebbe davvero una “politica della sostenibilità” a scala mondiale per fermare una crisi che è appunto economica ed ecologica.
«Durante la presentazione del libro Enzo Tiezzi, ordinario di Chimica Fisica all’ Università di Siena, ha parlato di sviluppo sostenibile e prendo in prestito quello che ha detto analizzando la parola sostenibile perché mi è parso di grande interesse per la discussione: in Italiano “sviluppo sostenibile” significa “sviluppo durevole” come in francese. Tra sostenibile e durevole non c’è differenza e quando in Italia si parla di “sviluppo sostenibile” si intende sostenuto dalla crescita. Già qui c’è un primo errore che invece recuperando l’etimologia inglese del termine – come appunto ricordava Tiezzi – non si commette: sostenibile viene da sustain che è il termine con cui si indica la pedalina del pianoforte con cui si allunga la nota. Dal “sostenere nel tempo la nota” è nato il concetto di sviluppo sostenibile (coniato da Brian Norton in California, ndr) ovvero la capacità di portare nel tempo, cioè di sostenere lo sviluppo anche per le future generazioni. Nel nostro pensare l’economia sostenibile viene invece messa in ombra un’idea di bilancio di ciò che bisogna spendere per fare e di ciò che ci si aspetta di avere nel tempo. Dentro c’è più il rapporto costi-benefici che quello di durata. In sostanza il riferimento all’asse dei tempi di ogni importo di costo e di beneficio calcolato o valutato chiama in causa il problema dello ‘sconto’. Il funzionamento concreto del sistema finanziario fa sì che le risorse assumano valori positivi, cioè spinge il sistema ad attribuire ai capitali presenti una maggiore utilità di quella attribuita ai capitali futuri: il valore attuale delle partite più lontane nel tempo tenderà a diminuire fino, al limite, ad azzerarsi. Questo è particolarmente problematico nel quadro dei progetti ambientali, che riguardano sempre il lungo periodo, sia che i costi tendano a essere più ravvicinati e i benefici più dilazionati nel tempo, come per i progetti di conservazione e tutela, sia che viceversa i costi siano rinviati al futuro e i benefici siano immediati, come in alcuni casi di valorizzazione e sfruttamento delle risorse naturali, i cui oneri di lungo periodo a carico delle generazioni future verrebbero così sottostimati, si pensi ad esempio, ai costi di gestione nel lungo periodo delle scorie derivanti dalla scelta di utilizzazione dell’uranio per la produzione di energia nucleare. Insomma, il problema è che non si spinge abbastanza quel pedale dello sviluppo sostenibile, anzi mi pare che questa idea sia ancora tutta da costruire o al massimo ce ne siano dei pezzi».

«A lungo – prosegue Tinacci – l’Ue su questo piano ha lavorato bene, poi si è acquietata. La politica ambientale, dalle recenti scelte, mi pare che segua più che altro la logica del colpo al cerchio e il colpo alla botte. L’Europa molto allargata forse ha indebolito certe posizioni, nonostante la regola che chi entra accetta quanto già stabilito dagli altri Paesi. Quello che mi pare grave è che, penso allo scudo spaziale, si è allentata quella visione di pace che c’era qualche anno fa. Forse non si è pensato abbastanza che i premi Nobel ad Al Gore e all’Ipcc non sono stati dati per l’ambiente, categoria che non esiste, ma per la pace. Da qui penso che il G-20 farebbe già molto per l’ambiente se non passasse più per il linguaggio delle armi».

L’Italia, paese fondatore dell’Ue, che mette in dubbio il “Pacchetto clima” certo non aiuta…
«Di questa situazione dell’Ue di cui dicevo prima, noi ne siamo tra i maggiori responsabili visto proprio il nostro ruolo nella costruzione della Comunità Europea. L’Italia è decisamente un problema in più su questo fronte, pensiamo ad esempio al fatto che non abbiamo assolutamente rispettato Kyoto e anzi, abbiamo peggiorato le nostre emissioni invece di ridurle».

Dal mondo, all’Italia, alla regione: che ne pensa della politica ambientale della Toscana?
«Diciamo così: non è peggiore della media italiana, anzi sta sopra la mediana. Sono di meno le regioni che fanno meglio di quelle che fanno peggio. Detto questo il problema è però che non c’è una visione d’insieme e i problemi vengono affrontati in modo abbastanza settoriale: acque, cave, rifiuti….non c’è politica di sistema. Ha ragione Riccardo Conti quando dice che bisogna che la politica dell’ambiente si colleghi alla politica del territorio, anche se mi pare che più che altro lui punti a mettere insieme i due assessorati. Comunque dal mio punto di vista l’assessorato all’ambiente negli anni è passato da una mera opposizione alla politica generale ad una azione di monitoraggio che aveva l’obiettivo di conoscere meglio i volumi delle risorse ambientali della regione attraverso una serie di indicatori, anche se le relative schede contengono più “faccine” che numeri».

La contabilità ambientale, infatti, non è più neppure argomento di discussione anche a livello italiano.
«Non solo, l’Istat con la Namea (National accounts matrix including environmental accounts, ovvero "matrice di conti economici nazionali integrata con conti ambientali", ndr) continua certamente a fare un lavoro importante ma vorrei vedere qual è l’input politico che arriva all’istituto, di quale considerazione insomma questi dati godano tra chi poi deve decidere. Inoltre ha il difetto che gli indicatori sono statici, non dinamici. E’ già qualcosa, per carità, ma in realtà conosciamo poco del nostro patrimonio fisico».

Servirebbero invece indicatori aggiornati almeno quanto viene fatto con il Pil e che siano altrettanto standardizzati.
«Non c’è da fare alcun correttivo al Pil, ma ripensarne proprio la logica del Pil perché è perverso, lo dico sempre ai miei studenti: se ieri siete stati a casa e avete passato una bella serata con gli amici, il Pil non si muove, se avete fatto un incidente in macchina, il Pil sale, vi sembra giusto? Gli va affiancato almeno l’indice di sviluppo umano con gli indicatori ambientali che già esistono e che devono essere solo migliorati e standardizzati. infatti, quando come ora viene incolpata l’economia finanziaria di aver perso i contatti con l’economia reale e con la produzione e quindi posti di lavoro, è un primo passo di ancoraggio ‘a terra’, ma ce ne è uno ulteriore da fare. Per ripartire l’economia deve andare indietro a 2 secoli e mezzo fa e vedere come è nata, per non dimenticarselo, invece è passata la logica del rilancio dell’economia attraverso una visione da anni Cinquanta. Guardi, la logica ambientalista è condivisa, ma viene rimossa per paura e perché è passata l’idea, anche tra i giovani, che ‘tanto la politica non fa nulla e io allora?’ Quindi ritengo che si tratti soprattutto di trovare il modo di motivare questa gente».

In Italia si fa esattamente il contrario
«Siamo più indietro di tutti e si sta perdendo una grande opportunità. Credo che come sempre capita a questo Paese ci si risveglierà improvvisamente e dovremmo importare tecnologia più avanzata dall’estero. Ci sarà un motivo per cui altri paesi stanno investendo molto per raggiungere gli obiettivi del Protocollo di Kyoto, mentre noi cerchiamo di avere degli sconti? Non può darsi che quello che sembra masochismo da noi, sia invece ciò che diventerà competitività domani? Stiamo perdendo il treno dell’innovazione che quando partirà ci lascerà doppiamente in braghe di tela».

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