[17/11/2008] Monitor di Enrico Falqui

Capitalismo naturale

LIVORNO. In passato, quando un’industria non riusciva a competere con successo si cercava di aumentare la sua produttività. In particolare, l’imprenditore per prima cosa pensava di aumentare il lavoro prodotto dall’operaio nell’unità di tempo.
Questo spiega perché i livelli retributivi, i contratti collettivi ed il contenimento di costo della manodopera e degli oneri sociali occupano un posto tanto importante, anche oggi, nel concetto di competitività delle singole realtà industriali.
Negli ultimi 40 anni, la produttività del lavoro è aumentata di circa 100 volte; gran parte di questo obiettivo è stato realizzato attraverso la sostituzione del personale attraverso macchine tecnologiche e robotica altamente specializzata. Quindi è difficile immaginare che nel prossimo futuro si possano ottenere risultati soddisfacenti continuando a incidere su questo “ aspetto specifico” della produttività delle imprese.

A livello mondiale, attualmente esistono circa 800 milioni di disoccupati (in larga parte giovani al di sotto dei 30 anni) e nei prossimi dieci anni assisteremo all’ingresso nel mercato del lavoro mondiale di circa 1 miliardo di persone. Se l’economia globale attraversa una fase recessiva di non breve durata, come accade adesso, è assolutamente evidente che poiché la ricerca della massima produttività del lavoro ha già generato cospicui costi sociali, non si potrà proseguire a lungo nel cercare di aumentare una "sorgente di conflitti sociali", quale è il tentativo di diminuire il costo del lavoro.

Oggi nella maggioranza dei comparti industriali, la percentuale dei costi totali rappresentata dal costo del lavoro è scesa al di sotto del 10% e in alcuni settori è scesa addirittura sotto il 5% del valore aggiunto, mentre solo 30anni fa raggiungeva il 50%.

Nella società di oggi (almeno tra i Paesi più ricchi e industrializzati) chi è definito “disoccupato” non rappresenta più “l’esercito di riserva del lavoro”, come si diceva una volta. Zygmunt Baumann sostiene che «i principi di flessibilità, di competitività e di produttività, misurati proprio in funzione della riduzione del costo del lavoro, rendono inevitabile l’accrescimento del divario tra chi partecipa alla competizione economica globale e chi, invece, ne è escluso e difficilmente sarà riassorbito in altre tipologie occupazionali».

L’attuale situazione del mercato globale, indica con chiarezza che il lavoro ben difficilmente può essere definito “ risorsa scarsa”, come vorrebbero le teorie classiche dell’economia.
Siamo in presenza, al contrario, di un surplus di offerta di lavoro (gran parte della quale è costituita da una “massa” di giovani autoctoni e di giovani immigrati nelle più forti economie europee).

Fino a pochi anni fa, anche il capitale costituiva una risorsa abbondante, avvantaggiando le aziende solide e serie nella ricerca di una sua maggiore produttività, ma anche favorendo una “creatività” perniciosa a molte imprese poco serie che hanno operato nell’illegalità di confine (paradisi fiscali all’estero) oppure in quella gestita da imprese criminali, come la mafia e la camorra, che hanno danneggiato l’intera economia nazionale.

Emerge da questo fenomeno, che ha caratterizzato gli ultimi 15 anni di espansione del capitalismo nell’economia globalizzata, l’antica definizione di “imperialismo” che John Hobson suggellò nel 1902 : «Una forma immorale e non necessaria della società capitalistica che viene assunta quando, a causa di un’evidente mal distribuzione della ricchezza, essa crea il desiderio di diffondere mercati il cui unico fine è il profitto senza alcun interesse verso la promozione sociale e il benessere della collettività».

Rimane una terza possibilità, quella della produttività delle materie prime e degli ecosistemi naturali, quali produttori di “servizi” essenziali per lo sviluppo economico e per la salvaguardia del pianeta su cui viviamo.
Le nuove opportunità di lavoro del futuro nasceranno proprio in stabilimenti a bassa intensità di materie prime ed alta densità di manodopera, dai quali fuoriusciranno minime quantità di scarti e di inquinamento.

Le industrie saranno “costrette” a introdurre sistemi in grado di garantire livelli più elevati di produttività delle materie prime, fino ad arrivare al livello ottimale di massima efficienza.

Ho usato il termine di “costrizione” anziché quello di “regolazione per convinzione” delle imprese, poiché a partire dal 1994 quasi tutte le materie prime sono state caratterizzate da un forte balzo in avanti dei prezzi. Dal caffè, allo zinco, fino a carta e cellulosa i costi delle materie prime sono cresciuti poiché negli ultimi 5 anni nel mercato globale è penetrata con la virulenza di uno tsunami, la domanda nuova generata da circa 500 milioni di nuovi consumatori con discrete disponibilità finanziarie provenienti dai paesi emergenti della Cina, del Sud Est asiatico e dell’India.

La consapevolezza che la terra disponga di risorse limitate determina nuove aspettative e spinge i prezzi al rialzo; quindi, la spinta dell’industria ad una maggiore efficienza nell’uso e nel consumo delle risorse naturali e delle materie prime, sarà una necessità cui molte aziende, soprattutto in Italia, saranno costrette ad introdurre nel management aziendale.

In altre parole l’industria italiana ha bisogno di imitare la natura in due principi fondamentali: l’efficienza nel trasferimento di energia da un livello di sistema ad un altro e la produzione minima di scarti non recuperabili e riciclabili.
L’uso del computer nella progettazione di oggetti ma anche di edifici può dare un contributo determinante all’obiettivo della “riduzione dei rifiuti e degli scarti”. Ad esempio riprogettando un oggetto si può scoprire che non c’è necessità di togliere materiale in eccesso se tutti i materiali sono già nella forma desiderata. I cosiddetti processi “ net-shape” sono già utilizzati in molte imprese avanzate e innovative in Europa, partendo dal principio che non è necessario assemblare molte piccole parti, ma è conveniente fabbricare un unico pezzo in forma perfetta. Il risultato sarà la pressoché totale scomparsa di scarti da questo tipo di produzione, assai diffusa nel settore dello stampaggio di materie plastiche.

Lo stesso può accadere nella progettazione degli edifici nuovi o nel recupero di un vecchio patrimonio edilizio nelle nostre città europee.
Il settore edilizio è un settore chiave nella definizione di una strategia di implementazione della “produttività delle materie prime”nell’economia
Basta pensare che, ogni anno, a livello mondiale il settore edilizio utilizza 3 miliardi di tonnellate di materie prime.

E’ necessario destinare una forte attenzione e un’intensa ricerca per impiegare nuovi materiali nella progettazione di nuovi insediamenti edilizi. Ma è altrettanto necessario saper recuperare ( nelle costruzioni e nei luoghi adatti) materiali tradizionali, come il pisè (terra battuta), le balle di paglia, il bambù, l’adobe( il mattone di argilla cruda), il caliche ( un’argilla particolarmente densa), poiché sono tutti materiali non tossici, sicuri, durevoli e molto versatili per i vari tipi di design. Così come si può recuperare circa il 30% dei materiali utilizzati nella costruzione di edifici oggi da dismettere o da abbattere, risparmiando una notevole quantità di materie prime per i nuovi edifici e riducendo i costi totali dell’opera.

Il futuro delle nostre città sta proprio nel riuscire a estendere il principio di produttività delle materie prime dal settore economico-industriale a quello edilizio, rigenerando la qualità delle materie prime e dei materiali utilizzati e investendo i cospicui risparmi di capitale economico ottenuti, a livello pubblico e privato, per riabilitare tutti i “servizi” prodotti dagli ecosistemi naturali, necessari alla sopravvivenza del nostro pianeta ma anche alla qualità e al benessere dei suoi abitanti.

Janine Benyus, che ho avuto la fortuna di conoscere anni fa presso la Rutgers University (New Brunswick, N.Y), oggi è divenuta presidente del “Biomimicry institute, un’organizzazione non-profit che si occupa di trasferire le idee, gli schemi e le strategie dei sistemi biologici alla progettazione ed alla pianificazione dei sistemi umani in modo da renderli sostenibili nel loro sviluppo.

«Il ragno elabora una fibra altrettanto forte e molto più resistente del Kevlar, una fibra che serve per i giubbotti anti-proiettili e che otteniamo con un complesso processo, dispendioso in termini di materie prime e consumo di energia. Se comprendessimo come fanno i ragni a realizzare tale fibra a temperatura corporea senza impiegare alta pressione, calore ed acidi corrosivi(come oggi facciamo noi, con costi assai elevati), avremmo spiegato cosa significa mettere in pratica il principio di “ mimicry” (imitazione) della natura che abbiamo intenzione di sviluppare nei prossimi anni” (Janine Benyus, Biomimicry, 1998).


Torna all'archivio