[24/11/2008] Monitor di Enrico Falqui

Coscienza di luogo e coscienza di specie

FIRENZE. La civiltà occidentale e il cosiddetto progresso sono definibili come produttori di complessità, al pari della vita dell’universo nella sua evoluzione, secondo quanto ci illustrano le più avanzata teorie cosmologiche, fisiche e biologiche.
L’arte è sicuramente la produzione più complessa nel campo umano, come dimostra l’evoluzione raggiunta oggi da due sue fondamentali espressioni, la letteratura e la musica.
E l’architettura? Se essa diviene progressivamente “arte” espressiva, cioè “produzione complessa” nella società contemporanea, anziché “ars aedificandi" (come hanno affermato recentemente molti architetti superstar quali Gehry, Koolhaas, Wines), con quali nuovi parametri dovrà essere giudicata e valutata?

Nel suo ultimo libro “Entre le temp et l’éternité”, un premio Nobel della fisica, Ilya Prigogine invoca la necessità di un “elemento narrativo” nel discorso teorico della fisica per poter concepire ed esprimere adeguatamente l’evoluzione della materia universale e rivela che natura e cultura sembrano seguire la stessa regola evolutiva e irreversibile dal semplice al complesso, da cui consegue che l’arte suggella l’accordo tra evoluzione della natura ed evoluzione della cultura.

In altre parole, l’arte è divenuta, nel corso della sua evoluzione, il simbolo del principio di libertà e di autorganizzazione cosmica, nonostante che da sempre sia sta accusata dalle classi dominanti “di non servire a nulla”.

Proprio come accade oggi all’architettura, accusata di “non servire a nulla” sia da parte di quelli che pretendono che essa “risolva i problemi della governance della città”(Calthorpe, 1993; Camagni, 2002) sia da parte di coloro che la accusano di essere divenuta “oggetto” ornamentale della metropoli-vetrina globale( La Cecla, 2008), sia da parte di coloro che teorizzano un localismo “estraneo ai processi di globalizzazione economica che hanno generato la destrutturazione del territorio” (Magnaghi,2001).

Quest’ultima tesi è alla base di una scuola di pensiero, in Italia, “la scuola territorialista”, fondata sull’idea condivisibile che durante l’epoca della modernità, culminata con il fordismo e la produzione di massa, “le teorie dello sviluppo hanno considerato e utilizzato il territorio in termini sempre più riduttivi, negando il valore delle sue qualità intrinseche”. Così, in un lungo processo storico che ha caratterizzato tutta l’epoca moderna, “... il produttore/consumatore ha preso il posto dell’abitante, il sito del luogo, la ragione economica della ragione storica”.

Secondo gli esponenti della “scuola territorialista”, questo processo di “de-territorializzazione” si è accompagnato a partire dagli anni ’70 alla crescita di “nuove povertà”, sia nei paesi ricchi occidentali, sia nei paesi in via di sviluppo.
“…il divario tra crescita economica e benessere è evidente non solo nel terzo mondo, con la crescita di povertà materiali ed estreme ma anche nel primo mondo, con l’incremento di “povertà da sviluppo”( anziché da sottosviluppo), afferma l’architetto Alessandro Giangrande.

Tali povertà riguardano principalmente aspetti del degrado urbano, territoriale ed ambientale dei paesi ricchi e quindi sono classificabili, come indicatori di uno sviluppo non sostenibile, governato dai criteri della crescita quantitativa dell’economia e della città.

Conseguentemente Alberto Magnaghi, fondatore negli anni ‘90 della “scuola territorialista” italiana (insieme ad altri architetti tra i quali lo stesso Giangrande, Ferraresi e Rossi Doria,) afferma : “...la possibilità di agire nuovamente l’ars aedificandi dei luoghi si pone innanzitutto come percorso di riappropriazione individuale e collettiva di saperi, di memoria, di culture locali”.
Per raggiungere quest’obiettivo, occorre cambiare radicalmente visione del problema:”... dalla terra come contesto, spazio topografico, supporto tecnico della città fabbrica fordista e della “ machine à habiter “ lecorbuseriana”, bisogna passare al territorio come prodotto umano vivente, costituito da “luoghi” dotati di personalità, bisogna recuperare il concetto di luogo nella sua complessità”.

In questo modo, Magnaghi introduce un concetto apparentemente strabiliante, quello di “coscienza di luogo”, come condizione individuale e collettiva per ricostruire una soggettività del territorio, ma anche per progettare modelli socio-economici alternativi capaci , attraverso una sorta di globalizzazione dal basso, di costruire mondi locali di vita, di produzione di beni e servizi pubblici, di reti di consumo e di scambi solidali, dando una sorta di primato politico a tutte le forme di cittadinanza attiva esistenti, sia nei Paesi sviluppati che in quelli più poveri.

Molti anni fa (1984), Enzo Tiezzi e Laura Conti, entrambi fondatori del movimento ambientalista moderno in Italia, giungevano alla conseguenza che “… le culture umanistiche (marxiste o capitaliste) mancano di un parametro fondamentale nella loro analisi storica : il tempo biologico”. Enzo Tiezzi, in particolare, sottolineava che “ le scale biologiche e storiche si sono invertite, poiché i tempi biologici e i tempi storici seguono ritmi diversi.”
Alcuni anni prima (1980), in un’intervista a Bernard Levy, il celebre filosofo francese Jean Paul Sartre, lanciava un appello di speranza per il futuro, chiamando in causa l’evoluzione e l’idea del fine dell’umanità:

“ Non siamo degli uomini completi. Siamo degli esseri umani che si dibattono per stabilire rapporti umani e per arrivare ad una definizione dell’uomo; è una lotta che durerà a lungo (...) per raggiungere il nostro fine che è quello di giungere ad un corpo costituito in cui ciascuno sia un uomo e in cui le collettività siano umane”.

In altre parole, Sartre ci premoniva che l’uomo ha molta strada da percorrere per comportarsi come tale; la sua evoluzione non è ancora sufficiente perché il concetto di fraternità, di specie comune sia acquisito.
“Le azioni dell’uomo non tendono ancora a un fine comune di sopravvivenza della specie(umana)”: in questo modo Enzo Tiezzi, nel suo libro più famoso, “Tempi storici, tempi biologici” (1984) introduceva nell’analisi e nella valutazione dell’ambiente e del territorio il concetto di “coscienza di specie”.

Anche Tiezzi, come Magnaghi,( Il progetto locale, 2001) invitava a passare dalla “coscienza di classe” a una coscienza de-ideologizzata ma concreta, la coscienza di specie per il primo, la coscienza di luogo per il secondo.
Tuttavia come aveva precedentemente intuito Sartre, la coscienza di specie è propedeutica alla coscienza di luogo da parte dei suoi abitanti.

Proprio le sconvolgenti previsioni descritte nel rapporto Stern(2006), in conseguenza di determinati scenari di modificazioni climatiche a scala globale, hanno smentito l’idea che sia possibile attendere i tempi necessari alla formazione di una “coscienza di luogo” da parte degli abitanti del pianeta.

L’utopia di Magnaghi e della scuola territorialista verte proprio sulla rinuncia ad accettare che i tempi biologici non coincidano con i tempi storici, mentre invece abbiamo a disposizione solo il tempo di una generazione per portare a compimento quella “rivoluzione energetica urbana” di cui parlano Peter Droge e Jeremy Rifkin nelle loro ultime opere.

L’acquisizione di una “coscienza di luogo” deve avvenire contemporaneamente a livello locale e a livello globale. Non ha alcun senso, come fa invece la scuola territorialista italiana, distinguere tra una scienza dello sviluppo sostenibile ( Ecological economics) fondata sull’efficienza tecnologica e sull’innovazione dei sistemi urbani e una teoria dell’autosostenibilità, nella quale ”la sostenibilità ambientale è inscindibile da quella culturale, sociale ed economica”.

Questa distinzione porta inevitabilmente, non, come sostiene Magnaghi, a una diversa definizione di sviluppo sostenibile (sviluppo autosostenibile), bensì a congiungersi inevitabilmente con le tesi di Serge Latouche, sulla decrescita (più o meno felice) e sul non-sviluppo.
“Coscienza di specie e coscienza di luogo” sono destinate a svilupparsi sequenzialmente oppure a soccombere insieme di fronte alla velocità e ai ritmi dei cambiamenti climatici e della drastica riduzione di cibo e di materie prime per l’umanità.
Sono maturi, invece, i tempi perché l’agire globale dell’uomo vada di pari passo con l’agire locale, sincronizzando le lancette dell’orologio biologico con la clessidra delle trasformazioni prodotte dall’uomo sull’ambiente.

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