[01/12/2008] Recensioni

La Recensione Fahrenheit 451 di Ray Bradbury

«C’era un buffissimo uccello, chiamato Fenice, nel più remoto passato, prima di Cristo, e questo uccello ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci s’immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatta. Conosciamo bene tutte le innumerevoli assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di saperlo, un giorno o l’altro la smetteremo di accendere i nostri fetenti roghi funebri e di saltarci sopra. A ogni generazione, raccogliamo un numero sempre maggiore di gente che si ricorda».

«Ad ogni generazione raccogliamo un numero sempre maggiore di gente che si ricorda»? a volte viene da pensare che sia il contrario. Che ad ogni generazione, cioè, il ricordo di ciò che siamo stati e degli errori da noi compiuti si affievolisca, bruciando come colpito dai lanciafiamme di pompieri incendiari.

“Fahrenheit 451”, celeberrima opera del 1953 di Ray Bradbury, narra come noto la storia di Guy Montag, pompiere del futuro il cui compito è cancellare la memoria attraverso il fuoco appiccato ai libri di carta. Un compito che Montag svolge con gioia, entusiasmo, dedizione. Bruciare i libri è bruciare la memoria, cancellare gli errori del passato. E Bradbury, intorno al protagonista, disegna un mondo (un’immaginaria America «che dal 1960 ha già vinto altre due guerre atomiche») in cui la cancellazione del passato è diventata sistematica, e la popolazione vive in uno stato di suggestione ipnotica in cui la comunicazione tra simili non è più un bisogno, ma uno sfizio. La carta stampata è stata soggiogata da schermi giganti che riempiono le pareti di casa, che vomitano perennemente spot e trasmissioni fatte per impedire il pensiero, inducendo una artificiale sensazione di appagamento e compagnia. Il fine? Il fine non si sa: nessuno ha deciso, nel libro, la scomparsa della carta. Semplicemente, essa si è estinta per eccesso di sintesi: le frasi hanno inizialmente ceduto il passo ai riassunti, i riassunti si sono ridotti a versi onomatopeici. Ma, anche se nessuno ha dato inizio a questo, c’è stato poi chi si è impadronito della storia, per girarla a suo piacimento: ed ecco nate le milizie incendiarie, ed ecco nate le trasmissioni fatte per indurre sonnolenza, come sedativi che annullino l’effetto eccitante che la cultura ha sulla mente.

Bradbury, in piena guerra fredda, sembra voler disegnare un percorso in discesa, dove ogni rogo è propedeutico a quello successivo, fino al rogo finale che sarà rappresentato dall’esplosione dell’ennesima guerra: una guerra dove le armi sono così potenti che essa «comincia ed ha fine nello stesso istante». Ma Montag non perirà sotto le bombe che distruggono la sua città. L’incontro con alcuni personaggi archetipici insinuerà prima il dubbio (la giovane Clarisse), poi il sospetto (la moglie Mildred), poi la certezza (il vecchio Faber) che il mondo illusorio in cui è nato sia stato plasmato da mani invisibili, al fine di... farlo dimenticare. Dimenticare cosa è scritto nei libri che Montag, agli ordini dell’ambiguo capitano Beatty, ha sempre bruciato, finora, con dedizione e entusiasmo.

Cosa è scritto nei libri che brucia Montag col suo lanciafiamme? Tutto. Tutta la poesia, la letteratura, l’arte che sia mai stata prodotta dall’ingegno umano, e che era stata affidata alla carta per non essere dimenticata. Tutti gli errori compiuti dall’uomo, tutti i limiti che non sarebbero dovuti essere superati, sono contenuti nei libri carbonizzati. E intanto, dovunque, i messaggi ossessivi della pubblicità incitano a non impegnare il pensiero per ricordare il passato, o pensare a come rendere migliore il futuro: è nel presente, la vita, cioè nel momento liberatore in cui consumiamo oggetti. Oggetti inutili, naturalmente, ma che una mente svuotata assume come feticci imprescindibili: «viviamo in un tempo in cui i fiori tentano di vivere sui fiori, invece di nutrirsi di buona pioggia e fertile limo nero».

Oltre alla spada di Damocle della guerra fredda, è questo il secondo oblìo che – nella prosa di Bradbury – pende sulla testa dell’uomo: dimenticato l’odore dell’erba e dell’acqua, il popolo cade in un turbine di omogeneità, dove la cultura è bruciata e sostituita dalla pubblicità, da cartelloni che diventano sempre più immani al crescere della velocità delle auto. E, nelle case, schermi giganti producono telenovelas e pubblicità fintamente personalizzate, in cui il nome del cittadino (pardon, del consumatore) è in ogni casa sostituito a spazi bianchi predisposti all’uopo. E nessuno si sente solo, e quindi nessuno sente più il bisogno di comunicare. E nessuno legge più, e quindi non sente più il bisogno di pensare: «il televisore è “reale”, è immediato. Ha dimensioni. Vi dice lui quello che dovete pensare, e ve lo dice con voce di tuono. Deve aver ragione, vi dite: sembra talmente che l’abbia! Vi spinge con tanta rapidità e irruenza alle sue conclusioni che la vostra mente non ha tempo di protestare, di dirsi: “quante sciocchezze”».

Il protagonista Montag, attraverso l’incontro con la giovane Clarisse, che non ha dimenticato di annusare gli odori e di comprendere anche i sogni degli altri, e con il vecchio Faber, che per la prima volta incita Montag a non dimenticare, si desterà poco a poco dal suo torpore. Inizierà nascondendo alcuni dei libri che dovrebbe bruciare, poi leggerà scampoli di essi, e diventerà poi cospiratore, assassino (darà fuoco agli altri pompieri quando essi, scoperto i libri, cercheranno di imporgli il rogo di essi e della propria casa), fuggiasco. Riuscirà a far perdere le sue tracce agli elicotteri e ai robot che lo inseguono, e giungerà fuori della città, dove incontrerà un gruppo di persone come lui. Persone che – come Montag – hanno con sé (o dentro di sé, stampati nella memoria) dei libri, o delle parti di libri. Persone che hanno deciso di non dimenticare, con cui Montag osserva - da lontano – il rogo della città morente, da cui è scappato prima dell’arrivo delle bombe.

Persone che sanno che la memoria svanisce, e che conservare la memoria del passato equivale ad ammonire gli uomini e le donne del presente e del futuro a non commettere errori già avvenuti. Granger, uno dei rifugiati, racconta a Montag che suo nonno aveva previsto da tempo, fin dalle prime guerre, l’arrivo dell’era dell’oblìo: «il nonno ci mostrò il film ripreso dal razzo V2 una decina di volte, poi si mise a sperare che un giorno o l’altro le nostre città si aprissero maggiormente, permettendo così al verde, alla campagna, alle regioni selvagge di penetrarvi di più, per ricordare alla gente che ci è stato assegnato un breve spazio sulla terra e che sopravviviamo in quelle solitudini selvagge che possono riprendersi quanto hanno dato, con la stessa facilità con la quale alitano il loro fiato su di noi o ci mandano il mare a dirci che non siamo poi tanto grandi. Quando ci dimentichiamo quanto siano vicine la notte, e le selvagge solitudini, diceva sempre il nonno, qualche giorno il deserto verrà a prenderci, perchè avremo dimenticato quanto terribile e reale possa essere. Capisci?”

«Capiamo»? Quando ci dimentichiamo l’essenzialità dei bisogni che abbiamo per vivere, e ci facciamo catturare dai bisogni finti che ci sono indotti da strumenti d’ipnosi sociale, ecco che ci dimentichiamo quelle «solitudini selvagge» da cui proveniamo. Ed è allora che quelle selvagge solitudini, quei deserti mentali (e forse reali) possono tornare a prenderci. Con Fahrenheit 451 Ray Bradbury sembra avere previsto tutto, già cinquant’anni fa. Sembra aver previsto che la nostra società avrebbe trasformato i consumi da mezzo a fine, da strumento a divinità. Sembra aver profetizzato la «discesa in campo» (e l’espressione non è casuale) di coloro che sanno bene come, attraverso la cancellazione della memoria di un paese e di una società, lo spazio vuoto lasciato da questa memoria possa essere riempito di spot e (quindi) di bisogni indotti. Sembra, Bradbury, avere previsto che la trasformazione da una società di cittadini ad una congrega di consumatori si basa su due capisaldi: dimenticare chi siamo, e illuderci di essere altro da ciò che siamo. In modo da sentire il bisogno, questo “altro”, di comprarlo. E poi bruciarlo, per essere pronti a comprare qualcos’altro: «E qui siamo, al crepuscolo, su lande corse da vaghi allarmi di battaglie e di fughe, dove eserciti ignari, scesa la notte, vengono a cozzare». E intanto, compriamo qualcosa, per non sentirci soli.

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