[22/12/2008] Consumo

La crisi alimentare globale (3)

PAVIA. Alcune delle cause sin qui discusse – l’andamento del prezzo del petrolio, le scelte di politica commerciale dei governi così come la loro attitudine verso la costituzione e ricostituzione di riserve strategiche, le scelte di altri governi in tema di sostegno alla produzione di biocarburanti – hanno un sapore chiaramente congiunturale. Con un po’ di fortuna e un surplus di coordinamento e saggezza, tali cause congiunturali potrebbero essere rimosse, ciò che potrebbe restituire una qualche normalità alla dinamica dei prezzi alimentari.

Sono tuttavia persuaso che le ragioni profonde della crisi alimentare globale siano altre. Se oggi il mondo, e specialmente il mondo più povero, sta sperimentando la scarsità di cibo – offerta stagnante e stock declinanti – è perché in molti PVS l’agricoltura è stata negletta. Lo riconosce ormai, e sia pure tardivamente, anche la Banca Mondiale (2008).

Prendiamo il caso dell’Africa, sede di molti di quei paesi LIFID cui abbiamo accennato in precedenza. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso i programmi di stabilizzazione e aggiustamento strutturale imposti dalle organizzazioni economiche internazionali incoraggiarono, tra le altre, due misure decisive di politica economica agricola: lo smantellamento dei marketing boards e la drastica riduzione (o addirittura eliminazione) dei sussidi sugli input agricoli.

Il compito dei marketing boards, organismi pubblici, era di comperare i beni destinati all’esportazione (cacao, caffè, ecc.) dai produttori locali e di rivenderli sui mercati internazionali. La differenza fra il prezzo ottenuto sui mercati mondiali e quello pagato ai produttori locali costituiva una sorta di gettito fiscale per i boards e una tassa implicita per i produttori locali. L’idea, brutalmente semplicistica, sottostante alla eliminazione di questi organismi pubblici di intermediazione era la seguente: se eliminiamo la tassa (e anche l’esattore..), il prezzo netto che finisce nelle tasche degli agricoltori aumenta e con esso l’incentivo a produrre di più e dunque, poiché tutti rispondono agli incentivi, la produzione agricola medesima.

Gli esportatori avrebbero inoltre beneficiato della svalutazione delle moneta locale, misura che non a caso veniva tipicamente inclusa fra i programmi di stabilizzazione. Anche i sussidi sull’uso degli input agricoli dovevano essere rimossi: l’idea, magnificamente sintetizzata dallo slogan getting the prices right che per circa quindici anni ha orientato le scelte della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, è che sussidiare la produzione in un certo settore dell’economia sia nel complesso controproducente perché si sottraggono risorse al resto dell’economia, risorse che – in assenza di sussidio – sarebbero state destinate ad altri usi.

I risultati di queste riforme furono disastrosi, di certo non produssero quel di più di output agricolo che avrebbe perlomeno accresciuto, durevolmente, la sicurezza alimentare di chi oggi più soffre le conseguenze della crisi alimentare in corso. Al contrario i coltivatori dei paesi più poveri furono colpiti molto duramente da queste misure, tanto più che esse manifestavano i loro effetti in una fase nella quale i paesi sviluppati continuavano a sussidiare le loro agricolture.

Perché questo fallimento? Perché il processo di riforma, di stabilizzazione e aggiustamento strutturale, fu guidato più dall’ideologia che dal pragmatismo. Eliminare un marketing board non significa che improvvisamente, con un colpo di bacchetta magica, un produttore relativamente piccolo diventa capace di vendere sui mercati internazionali. Avrà in ogni caso bisogno di ricorrere ad un intermediario, e si tratterà ora di un intermediario privato.

I produttori continuano perciò a versare una “tassa”, con la significativa differenza, che non essendoci più alcun corrispondente “gettito fiscale” a beneficio di un organismo pubblico, diventa più difficile finanziare quegli investimenti in beni pubblici ed infrastrutture necessari alla crescita della produttività agricola. Credo che a questo proposito valga la pena citare integralmente un passo di un recente studio dell’UNCTAD (2008b, pp.10-11-12):

“Il fattore fondamentale dietro alla scarsità dell’offerta consiste nel fatto che, specialmente negli ultimi due decenni, la produttività agricola è stata relativamente bassa nei paesi in via di sviluppo e addirittura decrescente in molti LDCs [Least Developed Countries, nota dell’autore]… La bassa produttività agricola è stata rinforzata da un sistematico fallimento delle strategie di sviluppo – la mancanza di investimenti pubblici e privati nel settore rurale e dei beni agricoli … Un fattore importante dietro a questa mancanza di investimenti è dato dai programmi di aggiustamento strutturale …. che hanno implicato l’abbandono o l’indebolimento di misure chiave di supporto istituzionale, inclusi i marketing boards …. L’effetto della generale mancanza di investimenti è risultato accentuato dalla non sorprendente incapacità dei mercati di fornire quei beni pubblici precedentemente forniti dai marketing boards locali o nazionali o da altre agenzie di intermediazione” (traduzione dell’autore).

A complicare ulteriormente il quadro appena descritto entra anche il ruolo giocato dall’Aiuto ufficiale allo sviluppo (AUS) a sostegno dell’agricoltura: secondo la Banca Mondiale (World Bank 2008, p.41) l’ammontare medio annuale nel coso degli anni ’80 del secolo scorso era di 7.5 miliardi di dollari, mentre nel periodo 1995-2005 si è ridotto alla metà.
Non c’è dunque nessun mistero da spiegare dietro alla dinamica stagnante della produttività agricola. Più misterioso, invece, è il ruolo giocato dalla speculazione. Ad esso dedico il prossimo paragrafo.

(continua - 3)

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