[29/12/2008] Comunicati

Imprevedibilità: è la nostra scommessa per il 2009

LIVORNO. Imprevedibilità. Nel gioco lanciato ieri da Repubblica su quale potrebbe essere la parola (o le parole) del 2009, scommettiamo su questa.
Imprevedibilità perché, potremmo dire banalmente, intanto ha l´accento sulla "à" finale, che sempre secondo il quotidiano di Scalfari, annovera questa parola tra quelle ´controffensive´ a quelle paurose come "recessione" e più in generale quelle che finiscono in "one". Troppo facile, infatti, scommettere sulla parola "crisi", che vincerà a mani basse.

Perché allora puntare tutto su una parola quasi certamente perdente? Perché dentro imprevedibilità c´è quell´orizzonte cui noi guardiamo che - stando, per così dire, ai numeri - non si raggiungerebbe mai. E´ prevedibile, infatti, che per uscire dalla crisi non si cambi alcunché del modello economico che ci ha portato esattamente al punto di rottura. Mentre è imprevedibile, ma non per questo escluso, che prevalga l´altra linea in campo (situazione giustappunto ´imprevedibile´ due mesi fa) che propone un modello economico meno dissipatore di energia e di materia.

Un passo indietro per farne due in avanti nel concreto: Dopo dieci anni di George Bush junior era auspicabile un cambiamento, ma che fosse così radicale come la scelta di un afroamericano alla Casa Bianca e che questo vincesse con un programma elettorale che propone a livello economico un green new deal, era francamente "imprevedibile".

Così è diventato piuttosto "prevedibile", anche per noi che economisti non siamo, capire dove ogni volta va a parare l´analisi economica di Innocenzo Cipolletta, tornato in prima pagina sul Sole24Ore ieri, rappresentativa di un modo di pensare che è ancora maggioritario almeno in Italia. Se anche aggiorna il suo credo di qualche critica anche pesante verso il modello economico imperante, alla fine chiosa sostenendo che «se non si chiuderanno i nostri mercati e se manterremo la politica fuori dalla gestione corrente dell´economia, allora la recessione potrà essere soltanto un episodio previsto, come ce ne sono tanti, anche più pesanti dell´attuale, nel corso degli ultimi sessant´anni».

Insomma Cipolletta, e come lui altri, spesso gioca a fare quello dell´eragiàtuttoprevisto, oppure dei grandi minimizzatori, e la sensazione è che questo sia il pensiero predominante.
Per Cipolletta non esiste evidentemente un problema di sostenibilità ambientale e dunque non serve alcun riorientamento dell´economia men che meno se pensato attraverso un intervento della politica. Perché per lui come per altri, non sembra esistere, e neppure essere ipotizzabile, una buona politica, ma solo quella brutta, sporca e cattiva. E comunque, anche se buona, la politica deve stare fuori dall´economia. Esattamente come è successo negli ultimi venti anni.

Di fronte a questo dibattito che non c´è, perché Obama in Italia soprattutto non sembra far proseliti, la ´pedagogia delle catastrofi´ avrebbe un potere quasi taumaturgico. Come dire: aspettiamo il grande botto (esattamente come quello dei sub prime), solo dopo quello si potranno mettere sul tappeto questioni che finora faticano enormemente persino a farsi argomento di discussione (e per chi non ci crede si rilegga i numeri di greenreport di qualche mese fa quando il nostro appello agli ambientalisti a dire qualcosa di sostenibile di fronte alla crisi mondiale ebbe l´effetto di farci sentire degli inguaribili idealisti e anche un po´ naif).

Ma anche la "pedagogia delle catastrofi" è fallace, non solo perché basterebbe sentire che cosa ne pensano quelli che si trovano a casa perché hanno perso il lavoro oppure sono sotto in banca perché quei 1700 euro in più l´anno di bollette proprio non sanno dove andarli a prendere visto che il loro stipendio non è cresciuto di un centesimo, bensì perché - come ci ricorda illuminandoci Gilberto Corbellini sul Sole di ieri - siamo «psicologicamente impreparati ad affrontare le incognite e le catastrofi del nostro tempo».

C´è una ragione antropologica, insomma, «la spersonalizzazione delle dinamiche decisionali che sono implicate nel funzionamento delle società complesse e dei mercati globali viene accettata fino a quando le risorse che giungono al sistema garantiscano che tutti, o almeno la maggioranza, possano guadagnare. Ma se qualcosa si inceppa, la fiducia viene istintivamente revocata. Senza minimamente calcolare che agendo in questo modo (...) il danno peggiora. Insomma, l´economia dei cacciatori-raccoglitori doveva affrontare altri tipi di crisi, del tutto circoscritte e proprie di un´economia a somma zero, per cui non siamo tarati per gestire razionalmente le crisi dei mercati globali». Figuriamoci, aggiungiamo noi, la contemporanea crisi ecologica, che in assenza di indicatori standardizzati spesso (troppo spesso) sfugge anche dalla percezione della gente.

Così «ci spaventiamo per la mancanza di risposte innate subito disponibili, e agiamo in modo prevalentemente irragionevole» (ascoltando e fidandoci, aggiungiamo noi, il primo che millanta la pietra filosofale). Che fare dunque?
«Una risorsa - dice sempre Corbellini - ce l´avremmo per gestire la crisi. Si tratta della cultura, intesa come esperienza individuale e collettiva storicamente accumulata ed empiricamente validata». Ma c´è sempre un ma purtroppo, «il nostro cervello, sul piano individuale, non è spontaneamente capace di usare in modo obiettivo i dati dell´esperienza». Vogliamo fare degli esempi?

Qualcuno ha smesso di far figli di fronte al boom demografico? Qualcuno è scappato dalla California perché presto o tardi ci sarà il "grande" terremoto? A Messina a 100 anni dal terremoto molto è come allora. Ancora si costruisce lungo i fiumi e sotto i vulcani e la manutenzione del territorio, che ci permetterebbe di evitare gran parte delle alluvioni che colpiscono il nostro Paese, non la facciamo. Chi dovrebbe intervenire allora? Le istituzioni sociali, che però vivono pure loro (e non potrebbe essere
altrimenti) un momento di grande decadenza.

Giochiamo, dunque, la carta dell´imprevedibilità. Che accada qualcosa di inaspettato - oltre a confidare ovviamente nel concreto su Obama e sull´asse con quella parte dell´Ue che pare aver recepito il messaggio - come la nascita di un partito politico transnazionale che ha un´idea di economia diversa da quella attuale, capace di dare futuro anche alle prossime generazioni, e dentro il quale affrontare collettivamente quelle questioni di fronte alle quali individualmente agiremo in difesa e probabilmente facendoci prendere dal panico.

Questo è ciò che ci distingue dagli animali e dalle macchine, come ci ricorda Read Montague (vedi recensione Simona Morini sul Sole di ieri): «il nostro cervello si è evoluto in modo tale da poter conferire ai nostri pensieri astratti un potere direttivo sulle nostre azioni. Questo ´superpotere´ che consiste nella capacità delle idee di ottenere il valore di ricompense primarie - al pari del sesso, del cibo e degli altri meccanismi che regolano la sopravvivenza biologica - spiega perché i costruttori sociali possono avere un vero e proprio ´impatto neurale e perché gli esseri umani - diversamente dagli animali e dalle macchine - sono disposti a morire non solo per la sopravvivenza, ma anche per idee come l´uguaglianza sociale, la giustizia o la religione».

Perché allora non vivere (che è molto meglio di morire) per costruire qualcosa di più grande e che possa contribuire a rendere a tutti la vita migliore socialmente e ambientalmente? La fase storica è delle peggiori, non c´è dubbio, anche perché è ragionevole sostenere che siamo esattamente all´opposto di quanto andiamo dicendo, con le società moderne sempre più poltiglia e i partiti ad inseguire (cosa impossibile) tutto quello che si muove. Ma come abbiamo detto prima, in questi ultimi giorni di questo disgraziato 2008, scommettiamo sull´imprevedibilità di un futuro economico e politico più sostenibile. Nonostante tutto, l´ora più buia è quella che precede l´alba.

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