[09/05/2006] Rifiuti

Enrico Falqui e i costi del non fare

FIRENZE. I costi del non fare riguardano l’intera filiera di gestione dei rifiuti. Ad Enrico Falqui, storico padre dell’ambientalismo toscano, chiediamo di accompagnarci in questo viaggio alla ricerca dei costi del non fare partendo dalla riduzione, che è in campo almeno da quasi 10 anni col decreto Ronchi del 1997, e almeno dal piano regionale del 1998 con iniziative e azioni individuate anche nei piani provinciali. Ma salvo qualche iniziativa emblematica come Acquartiere (progetto della circoscrizione 4 di Firenze), su questo terreno non si è fatto nulla, come dimostra la verifica di quante amministrazioni pubbliche usano carta riciclata e fanno gpp.
Eppure ci sono leggi, piani, decreti…

«Il non fare ha sempre una ragione. E il problema è squisitamente politico: si fa poca riduzione dei rifiuti per una politica economica nazionale sbagliata. Il nostro Paese deve cominciare a fare accordi con le grandi imprese nazionali ed europee per ridurre durante il processo produttivo l’impiego di materiali non riciclabili. Ma bisogna anche fare prodotti che abbiano tempi più lunghi di quelli attuali, perché oggi il tempo di vita di un oggetto è brevissimo e il governo non ha fatto nulla per incentivare tempi di vita più lunghi. L’Europa ha fatto molto in tema di riduzione, l’Italia invece pochissimo, anzi in questi ultimi 5 anni ha trasformato il vecchio decreto Ronchi in modo tale che molte materie recuperabili ora sono considerati scarti e invece molte sostanze tossiche sono state assimiliate ai rifiuti urbani. Si sono fatte poche politiche nazionali per incentivare leggi e tempi di vita più lunga».

Il costo del non fare la raccolta differenziata. Non solo perché gli obiettivi languono, ma soprattutto perché anche gli impianti non ci sono. L’esempio è nella quantità di rifiuti umidi prodotti in Toscana e quanti se ne composta, per non parlare di impianti di recupero inerti...
«Quello della raccolta differenziata è invece un problema che attiene di più ai soggetti regionali, sia pubblici che privati, piuttosto che nazionali. Per esempio in Toscana s’è fatto pochissimo per incentivare le borse dei rifiuti, cioè lo scambio di materie prime secondarie che una volta rigenerate possono nuovamente diventare materie prime. Bisognerebbe premiare chi recupera questi rifiuti e chi li scambia, oggi invece l’imprenditore che lo fa trova solo un costo elevatissimo col risultato di alimentare il traffico clandestino dei rifiuti. Poi sarebbe opportuno pensare a una politica per i commercianti che sono grandi utilizzatori di ingombranti. Firenze ha nel suo piano dei rifiuti una quota del 55% costituita da materiale ingombrante, e di questi l’80% è utilizzata e consumata dai commercianti. Se a questi commercianti gli venisse detto: noi vi riduciamo alcune tasse in rapporto alla quantità di rifiuti che voi, con una vostra azienda costituita in seno alla Camera di commercio, riuscirete a recuperare e a riconsegnare alle industrie produttrici, secondo me e avremmo risolto il 55% del volume dei rifiuti, mentre loro ne trarrebbero sicuramente profitto. Quindi anche in tema di differenziata i costi del non fare sono tanti, e le responsabilità sono politiche».

Costi del non fare sull’impiantistica di smaltimento finale. I rifiuti girano in Toscana e anche fuori per gli speciali, con un turismo dei rifiuti non necessitato e impatti ambientali che nessuno misura. Oltretutto con difficoltà nei controlli e pazzesche diseconomie di sistema, da quantificare sia in termini economici che ambientali. Chi può affermare che questi costi non ci sono?
«Dal punto di vista scientifico e tecnico è molto difficile calcolare una cosa del genere. Ogni attività infatti produce un effetto di modificazione sull’ambiente. Certo è vero che se si mette il veto a impianti di termovalorizzazione di terza generazione, cosa si deve fare nei confronti del traffico? Questa per esempio è una domanda che va posto a chi sostiene impatto zero, perché il traffico è la sorgente fondante della produzione di polveri fini, anche delle cosiddette nanoparticelle, nella proporzione di 1 a 1 milione. Questo illustre scienziato che ha accompagnato Grillo, Stefano Montanari, sostiene che vengono prodotte perché è stata portata a 1200 gradi la temperatura degli inceneritori. Questa è la più grande panzana da spettacolo comico, quale è Grillo, che abbia mai sentito, perché la temperatura a 1200 gradi è stata conquistata a fatica grazie alle lotte che gli ambientalisti e soprattutto Legambiente, hanno fatto negli anni passati, perché fu studiato a lungo il fenomeno e ci si rese conto che il rischio delle diossine era inaccettabile, mentre quello delle nanopolveri era infinitesimo rispetto a quello che noi respiriamo a causa del traffico. Ecco, siccome noi c’eravamo e Montanari evidentemente no, sarebbe bene che si riandasse a rileggere un po’ di questi studi».

Torna all'archivio