[23/01/2009] Parchi

L´Economist, la biodiversità, le foreste tropicali e la complessità

LIVORNO. L´Economist presenta i risultati del convegno tenutosi recentemente alla Smithsonian Institution di Washington come una delle rare buone notizie che arrivano dal mondo della conservazione dell´ambiente: la dimensione dell´estinzione globale delle specie potrebbe essere stata sopravvalutata e sarebbe abbastanza improbabile che il mondo perda 100 specie viventi al giorno, cioè più o meno la metà delle intere specie viventi conosciute durante il ciclo della vita delle persone che già oggi popolano il pianeta terra. «La cattiva notizia, tuttavia – è costretto ad ammettere l´Economist - è che i fortunati sopravvissuti sono minuscoli insetti tropicali dei quali si preoccupano poche persone. Le specie che vengono perse più rapidamente sono i grandi vertebrati dei quali i conservazionisti si preoccupano in primo luogo».

I dati che circolano dal 2006 sull´estinzione di massa sarebbero dunque imprecisi. Secondo Joseph Wright, dello Smithsonian tropical research institute di Panama, ed Helene Muller-Landau, dell´università del Minnesota, il danno alla biodiversità potrebbe non essere così spietato. Il loro ottimismo è motivato dal fatto che la crescita della popolazione sta rallentando in molti Paesi tropicali e che l´urbanizzazione crescente sta facendo diminuire la pressione antropica sulle foreste pluviali, con l´abbandono dei territori agricoli marginali, consentendo agli alberi di crescere e di recuperare spazi che erano stati loro tolti. Secondo i due scienziati questa "secondary" ricrescita delle foreste sarebbe cruciale: nelle terre abbandonate nel giro di pochi decenni sarebbe ritornata la metà della biomassa originale e queste aree vengono ricolonizzate da specie animali e vegetali e rappresentano un nuovo sostegno per le specie della foresta originaria in pericolo. Nonostante gli allarmi che provengono dall´Amazzonia, dall´Indonesia e dall´Africa, dove la deforestazione non si ferma ed è saldamente in mano a multinazionali che poco hanno a che fare con cali demografici ed urbanizzazione, per Wright e la Muller-Landau nel 2030 la foresta tropicale ininterrotta dovrebbe continuare a ricoprire oltre un terzo del suo areale naturale, e dopo potrebbe addirittura ricominciare ad espandersi, in particolare in America latina ed Asia. Entro il 2030, il recupero forestale delle aree marginali abbandonate potrebbe ridurre a "solo" il 16 – 35% l´estinzione, delle specie che vivono nella foresta tropicale in Africa, in Asia la perdita della biodiversità potrebbe arrestarsi al 21-24% e in America latina ancora meno. «Una volta che sarà avviato l´aumento della copertura forestale – scrive l´Economist - il tasso di estinzione dovrebbe diminuire».

Il noto giornale economico non nasconde che però la teoria si espone a obiezioni: «La prima si chiede se i dati grezzi sulla copertura forestale sono un buon indicatore della biodiversità, almeno per i grandi animali». William Laurance, anche lui dello Smithsonian tropical research institute, ha evidenziato che gli uccelli e i mammiferi che sono più vulnerabili alle alterazioni nel loro habitat degli insetti e di altri piccoli animali. I dati disponibili suggeriscono che anche in alcune delle aree meglio protette di foresta primaria, queste specie si trovano di fronte a fortissime pressioni. La pensa così anche Elizabeth Bennett, della Wildlife Conservation Society, «per i grandi uccelli e mammiferi, la caccia incontrollata per cibo e commercio, sta causando il fenomeno conosciuto come "empty-forest syndrome". Molte foreste che viste dal satellite sembrano in salute, in realtà sono oggi silenziose perché molti dei loro grandi animali sono spariti a causa della caccia per sussistenza o per profitto».

Tuttavia, ormai la gran parte degli scienziati è convinta che i grandi animali "totemici" per l´uomo non sono un valido indicatore per lo stato di salute di milioni di altre piccole specie che vivono nelle foreste, meno conosciute (e spesso ignorate) ma non meno importanti nella catena della vita. Nigel Stork, dell´Università di Melbourne ha spiegato che «Molte delle specie sono insetti e questi sono più resistenti e molto meno a rischio».

La seconda critica alla quale si espone la tesi di Wright e Muller-Landau è sul collegamento diretto ed automatico che fanno tra popolazione di un Paese e tasso di deforestazione. Per la Laurance questo link non è più così forte ed in futuro potrebbe esserlo anche meno: «Nelle ultime due decadi, molte zone dei tropici hanno visto un aumento delle forme di utilizzo industriale del territorio quali la coltivazione di soia, le piantagioni di olio di palma, lo sviluppo di gas e petrolio, insieme con la costruzione di strade che comportano altri progetti di edificazione. Tali attività variano secondo le esigenze dei mercati internazionali, non per la dimensione della popolazione locale». La Laurance è anche preoccupata dal fatto che la liberalizzazione degli scambi dei prodotti agricoli e la crescita dei biocarburanti possano portare ad un enorme aumento della domanda di terreni nelle aree tropicali.

Ma se i ricercatori si dividono sulle percentuali di un´estinzione che potrebbe essere di massa oppure molto pesante, sono tutti convinti che il cambiamento climatico sia una minaccia per la biodiversità del pianeta. Anche l´ottimista Wright è preoccupato: «Molte specie tropicali si sono evolute in un ambiente che variazioni di temperatura molto piccole, non sono attrezzate per far fronte con un incremento di appena 3 gradi, che è il genere di cambiamento climatico che molti scienziati prevedono. Queste specie se vogliono sopravvivere dovrebbero migrare a grandi distanze. Entro la fine del secolo, il 75% delle foreste tropicali sarà più caldo di oggi, e quel che resterà in questi caldi, umidi luoghi non lo sappiamo». Insomma, se l´uomo deforesterà meno non è detto che gli abitanti delle foreste staranno meglio, e il global warming potrebbe uccidere per caldo quello che gli alberi in più potrebbero salvare. La solita irriducibile complessità che fa capolino anche nelle discussioni sulla biodiversità alla Smithsonian Institution e sulle pagine molto spesso scettiche dell´Economist

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