[27/01/2009] Comunicati

Non contano le dimensioni ma come la usi (l´industria)

LIVORNO. In una fase di recessione economica quale quella che stiamo attraversando la scelta su dove e come indirizzare le energie per garantire un rilancio non è indifferente, soprattutto se si vuole (come è corretto che sia) tenere in conto che esiste (e da più tempo) anche una crisi ecologica, anch’essa globale. Il dilemma dovrebbe essere quindi quali strumenti utilizzare per avviare un processo che porti ad un nuovo modello economico capace di tenere in conto tutti gli aspetti del problema e sfruttare, come abbiamo detto più volte, la crisi economica come un opportunità per avviare una riconversione ecologica dell’economia. Altri sembrano essere invece i dubbi che caratterizzano il dibattito interno al nostro paese, ovvero se privilegiare la piccola media impresa anziché la grande industria o viceversa.

In Italia l’economia dei distretti formati da piccole e piccolissime imprese rappresenta un anomalia rispetto al resto d’Europa, dove una micronizzazione così diffusa non è neanche concepibile. Per anni vantata come un modello d’eccezione, capace di dare slancio e sostanza all’economia nazionale, la piccola e media impresa, contraltare dell’altro grande motore economico nazionale costituito dalla Fiat, adesso si trova a dover competere con l’azienda automobilistica (con cui è per altro collegata nell’indotto) per gli aiuti di Stato per affrontare la crisi.

Un match che vede schierato da una parte i sostenitori dell’importanza di dare fiato proprio a questo tessuto connettivo per ridare slancio all’economia nazionale, fra cui il ministro del Welfare Maurizio Sacconi; dall’altra chi sostiene, invece, che è la ripresa della Fiat che potrà aiutare il paese ad uscire dal guado, che si preannuncia lungo, oltrechè faticoso, da superare.

Terzium non datur sembra sostenere Guido Gentili dalle pagine del quotidiano di Confindustria, intendendo che quello che serve è una strategia fuori dalla contrapposizione a blocchi tra grande e piccola industria e di «ragionare in termini di filiera produttiva e di sostegno all’innovazione, alzando un po’ lo sguardo e cercando anche di spingere sul pedale Europa». Quindi aiutare entrambe a fare meglio sistema.

Se si guarda all’Europa, la Spagna ad esempio ha scelto di affidare 8 miliardi di euro a un fondo di rilancio dell’economia, destinato a garantire il finanziamento ai comuni per avviare progetti d’infrastrutture di piccole e medie dimensioni. Quello che chiedeva al nostro governo il presidente di Ance, anziché puntare la barra e mettere i fondi solo verso le grandi opere: direzione dalla quale, però, non sembra che il governo sia intenzionato a dirottare.
Se lo sguardo si volge anche oltre l’Europa e quindi si approda oltreoceano, si vede bene che invece c’è una via alternativa alle due, che ha (avrebbe) anche il vantaggio di ricomprenderle entrambe, ed è quella ecologica.

Gli atti cui la nuova amministrazione della Casa Bianca sta indirizzando l’economia americana hanno infatti la caratteristica (più volte annunciata e adesso praticata) di avere come denominatore comune l’obiettivo di innescare una rivoluzione verde, che sarà capace di trascinare piccole e grandi imprese, creando nuova occupazione (e consolidando quella già in essere) e rispettando al tempo stesso le leggi di base sulle quali l’economia si regge, ovvero quelle ecologiche.

Un coraggio inaudito da parte del presidente Usa, nel giorno in cui sulla struttura industriale americana si è abbattuta la scure che ha spazzato via 50mila posti di lavoro, quello di spingere il Senato a far presto per dargli la possibilità di rendere operativo un provvedimento che secondo l’opposizione repubblicana «prevede spese che non hanno nulla a che fare con uno stimolo all’occupazione e al tempo stesso non riduce tasse che potrebbero incoraggiarla».

Perché non punta a rilanciare il consumismo spinto che ha caratterizzato lo style of life americano bensì misure per ridurre drasticamente la dipendenza dal petrolio con interventi per la riqualificazione energetica degli edifici pubblici. Perché non dà aiuti a pioggia al settore delle automobili, ma chiede di inserire misure restrittive per la circolazione delle auto e sui loro consumi così da stimolare un industria automobilistica a rivedere gli schemi che hanno prodotto sino ad ora modelli inquinanti e a forte consumo di carburante, oltre ad una crisi strutturale ed occupazionale.

«Una svolta che però non basta» commenta Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on economic trends, che vorrebbe che i pilastri della rivoluzione ecologica venissero messi subito a cantiere, e si passasse ad un modello di generazione distribuita per l’energia anziché al vecchio schema delle grandi centrali e delle reti di distribuzione e ad un sistema in cui le case diventassero produttrici di energia anziché consumarla.

Ma come egli stesso ammette, in un’intervista rilasciata a La Repubblica «sono cambiamenti epocali che procedono in maniera irregolare, con accelerazioni rapide in un’area e arretramenti in un’altra».
Ci sembra di poter interpretare le misure cui vuole ricorrere Obama come «accelerazioni rapide» anche per il fatto che provengono da un paese che ha un peso non indifferente nell’economia mondiale e che può rappresentare un importante traino per il resto del pianeta.
Rispetto alla quale potremmo dare uno sguardo a casa nostra e chiederci come ha fatto Ermete Realacci, ministro dell’ambiente del governo ombra del Pd, «e il Governo Berlusconi che fa?».
Arretra, potremmo rispondere.

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