[26/02/2009] Comunicati

Chiuso l´anno polare internazionale: anche i ghiacci antartici sono in diminuzione

FIRENZE. Si avvia alla conclusione l’Anno polare internazionale (International polar year, Ipy) 2007-2008. Il progetto, che in realtà ha avuto inizio nel marzo 2007 e ha quindi avuto la durata di due anni, è stato realizzato tramite una collaborazione tra World meteorological organization (Wmo) e International council for science (Icsu), e ha ricevuto stanziamenti per una cifra complessiva di circa 1,2 miliardi di dollari.

Sono stati intrapresi più di 160 studi compiuti da ricercatori provenienti da 60 paesi diversi. Nel corso della presentazione del rapporto conclusivo (The state of polar research) il segretario generale della Wmo, Michael Jarraud, ha dichiarato che «l’Anno polare internazionale ha avuto luogo in un momento di crisi per il futuro del pianeta. Le nuove prove derivanti dalla ricerca polare rinforzeranno le basi scientifiche su cui costruiremo le nostre future azioni».

Nel presentare il rapporto, il sito dell’Ipy afferma che i due anni di studi «hanno dato una spinta critica alla ricerca polare, in un periodo in cui l’ambiente globale sta cambiando più velocemente di quanto sia mai avvenuto nella storia dell’uomo».

L’ambito più interessante della ricerca consiste sicuramente nella valutazione per cui non solo le calotte glaciali artiche sono in via di scioglimento, ma anche quelle antartiche. E questo aspetto, di cui greenreport ha discusso più volte in passato riprendendo anche studi prodotti nell’ambito dello stesso progetto Ipy, costituisce il principale elemento di novità: «appare ora evidente che entrambe le calotte artica e antartica stanno perdendo massa, contribuendo così alla crescita del livello marino. Il riscaldamento in Antartide è molto più diffuso di quanto si pensava prima dell’Anno polare, ed è emerso che anche che la perdita di ghiaccio dalla Groenlandia sta crescendo».

Come noto infatti, la risposta di ampie parti del continente antartico alla fase di surriscaldamento globale era stata finora (o perlomeno, era stata stimata) inversa rispetto a quanto avvenuto in tutti gli altri continenti. I ghiacci terrestri sembravano in aumento, e anche la banchisa marina circostante dimostrava un lieve ma costante trend di crescita: nel dicembre 2007 era stato raggiunto (dati: università dell’Illinois) il record di estensione della banchisa dall’inizio delle misurazioni satellitari (1979), con quasi 2 milioni di kmq di anomalia positiva rispetto alla media. Peraltro, nel corso dell’anno 2008 l’estensione è calata drasticamente, fino al dato odierno che vede una banchisa antartica con un’estensione pressoché uguale alla media 1979-2000.

Comunque sia, l’aumento dei ghiacci australi terrestri era stato spiegato solo parzialmente: una delle ipotesi più accreditate attribuivano il fenomeno all’isolamento di ampie parti del continente dalle correnti marine e aeree (principali veicoli di ridistribuzione del calore presente sul pianeta), e quindi alla spiccata continentalità del clima locale. Altra ipotesi supponeva che proprio la continentalità del clima locale (e quindi il regime precipitativo, molto ridotto in quello che è in realtà una specie di deserto freddo) fosse perturbata dal Gw in direzione di una maggiore oceanicità, cioè di maggiori precipitazioni e nuvolosità, e quindi di un aumento netto dei ghiacci causato dalle maggiori precipitazioni e dalla minore insolazione.

Le ricerche dell’Ipy hanno invece evidenziato un «riscaldamento sopra la media delle acque dell’oceano meridionale», cioè intorno all’Antartide, che si è accompagnato ad un «raffreddamento delle acque profonde vicino all’Antartide» che è «coerente con la crescita dello scioglimento dei ghiacci dal continente e potrebbe influenzare la circolazione oceanica».

Altri ambiti che sono stati approfonditi nel progetto “Anno polare” hanno riguardato l’assottigliamento dello strato di ozono nell’emisfero meridionale, e la situazione glaciologica in Artico, dove l’estensione della banchisa ha raggiunto il record negativo degli ultimi 30 anni nell’estate 2007 e in quella del 2008. Inoltre è stata riscontrato nella zona artica un «ritmo senza precedenti della velocità di deriva del ghiaccio marino», e sono stati intrapresi studi che hanno evidenziato come «le tempeste nord-atlantiche costituiscono la principale fonte di calore e di umidità per la regione», studi che sono e saranno molto importanti per prevedere, in futuro, il percorso e l’intensità delle tempeste con una maggiore accuratezza.

Citiamo anche gli studi compiuti sulla biodiversità (migrazioni latitudinali delle specie, ricerche sulle dinamiche evolutive comuni e sulla vicinanza genetica tra invertebrati marini nei due emisferi), e sul rilascio di metano originato sia dallo scioglimento del permafrost sia, in alcuni casi (es. coste della Siberia) da sedimenti oceanici.

Infine, vanno ricordati gli oltre 30 studi che hanno riguardato materie comprese nelle scienze sociali, con particolare attenzione alle comunità indigene dell’Artico: studi sull’inquinamento, sulla sicurezza alimentare, su generali questioni sanitarie. Studi anche che, nel parere del direttore del programma Ipy, David Carlson, sono stati «catalizzatori dello sviluppo e del rafforzamento delle reti di monitoraggio delle comunità nelle regioni nordiche. Queste reti stimolano il flusso di informazioni tra le comunità e, di rimando, dalla scienza alle comunità stesse».

Come si può notare, molti degli studi citati erano riferiti ad argomenti che in questi anni abbiamo più volte affrontato. Il rapporto “State of polar research” altro non è che il riassunto sistematico di molti di questi studi, che spesso erano peraltro finanziati proprio tramite gli stanziamenti previsti per l’Ipy. L’elemento di maggiore novità è rappresentato dal dato sull’Antartide, che ancora nel quarto rapporto Ipcc (2007) era considerato come l’unico continente che non aveva affrontato un riscaldamento significativo, o che perlomeno aveva comunque aumentato la massa glaciale. Va ricordato che, diversamente da quelli che considerano la banchisa, che è un dato orizzontale e quindi è agevole da monitorare, i dati relativi alle calotte glaciali (dati “tridimensionali”) sono di ben più difficile osservazione.

Resta comunque ovvio che il presunto raffreddamento dell’Antartide, che ora sembra essere stato smentito (e che come abbiamo visto sopra godeva comunque di spiegazioni attendibili), rappresentava comunque solo l’eccezione che confermava la regola: il mondo sta affrontando una fase di surriscaldamento, e questo dato inequivocabile non poteva certo essere inficiato dalla fase di raffreddamento che colpiva alcune zone caratterizzate da uno spiccato isolamento climatico, come l’Antartide. E ora (pur nel ribadire che occorrono studi ulteriori), sembra proprio che anche questa “eccezione” abbia avuto termine.

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