[02/03/2009] Trasporti

Chi deve pagare per le tratte ferroviare in rimessa ma che sono di pubblico servizio?

LIVORNO. Alle dieci società che formano ad oggi le Ferrovie dello Stato, se ne aggiungerà un’altra entro fine anno. O per dirla meglio entro dicembre 2009 la società Trenitalia verrà suddivisa in due compagnie: una destinata a stare sul mercato e a competere con la società di alta velocità ferroviaria cui sta lavorando Luca Cordero di Montezemelo (Ntv) e l’altra su cui invece verranno concentrate tutte le attività che fanno capo al cosiddetto “servizio universale”, ovvero quello pubblico. Ed è lì che verranno inserite tutte le linee di treni che non riescono a coprire i costi necessari per erogare il servizio con i ricavi.

Quindi se lo Stato o le regioni vorranno continuare a mantenerle ne pagheranno i costi, altrimenti verranno chiuse. Come è già stato fatto per molte tratte considerate rami secchi o per collegamenti in determinati orari che non vengono più garantiti.

«Dove c’è servizio universale, è problema dello Stato - dice Mauro Moretti, amministratore delegato di Ferrovie. Noi indichiamo i treni sui quali non vediamo speranza di guadagno, poi sarà lo Stato a decidere se tenerli». Ragionamento che non fa una piega dal lato dell’ad, che ne fa eccome se visto dal lato dei tanti utenti che si vedranno costretti a rinunciare al treno se lo Stato non investirà in questa società figliastra.

I numeri sono poco promettenti: dai documenti di Fs emerge infatti che sarebbero ben 81 su 88 le tratte decisamente in perdita, per una cifra pari a quasi 270 milioni di euro. In pratica tutte quelle di lunga percorrenza dove, se non viene ammodernata la rete, non è possibile far marciare treni per l’alta velocità e tutte le tratte destinate al trasporto dei pendolari.

Del resto la strategia dell’amministratore delegato di Ferrovie non è un mistero e l’ha più volte descritta nelle interviste rilasciate ai media.
Per risolvere il problema dei pendolari è necessario potenziare l’offerta, ma per fare più servizi servono fondi e trattandosi di servizi pubblici è il pubblico che li deve mettere, sulla base di una pianificazione e di scelte su dove mettere le risorse e su dove andare a prenderle.

E chi se non la politica può decidere se vuole indirizzare lo spostamento delle persone e delle merci dalla gomma al ferro e quindi dove vuole investire più risorse? Sarebbe infatti assai strano che le strategie dei trasporti locali e nazionali, li decidesse un’azienda che - sebbene abbia ancora lo Stato al suo interno - ha come obiettivo quello di fare degli utili gestendo un servizio e di riscuotere semmai i corrispettivi per un servizio che fornisce.

Infatti Ferrovie dello Stato ha dichiarato di ricevere dal pubblico (Stato e regioni) oltre 3 miliardi di corrispettivi all’anno per i servizi erogati, rispetto ai 4,7 che ottiene dal mercato.
«Ma non siamo un servizio pubblico - ha ribadito Moretti - Trenitalia non ha concessioni e nel bilancio deve pareggiare i costi con i ricavi».

In effetti la liberalizzazione delle ferrovie avvenuta in Italia riguarda i servizi ma non le infrastrutture. L´infrastruttura, ovvero le line che fisicamente sono uniche restano di proprietà e sotto la gestione di un unico soggetto, Rfi, che continua come in passato ad agire da monopolista. Su questa infrastruttura possono transitare treni di soggetti diversi o in concorrenza tra loro o che gestiscono servizi complementari o indipendenti e che pagano un pedaggio per usarla.

Un circolo di denaro, che nel caso del trasporto regionale, diventa vizioso: lo Stato trasferisce le risorse finanziarie alle Regioni, che a loro volta pagano un corrispettivo a Trenitalia per il servizio richiesto e Trenitalia usa una percentuale del corrispettivo (mediamente circa il 30%) per pagare il pedaggio a Rfi.
Ora dato che Rfi a sua volta è di proprietà del Ministero del Tesoro, cioè dello Stato, quello che non riesce a coprire con il pedaggio, lo copre con altre forme di sussidio statale.

Alla base del problema quindi possiamo metterci in conto anche una liberalizzazione spuria, che non cambia però il metro del ragionamento, ovvero che se lo Stato (o le regioni in un sistema più federalista) vuole (vogliono) un servizio pubblico deve (devono) metterci risorse.

E il punto torna ancora ad essere quelle delle scelte strategiche sulla politica dei trasporti, ovvero se si vuole indirizzare lo spostamento delle persone e delle merci dalla gomma al ferro e quindi se si vuole investire più risorse da una parte o dall’altra.

I dati ad oggi indicano che la direzione scelta è esattamente quella opposta, nonostante che anche per il piano delle grandi opere infrastrutturali scelte come prioritarie (tra cui il Ponte sullo Stretto) e che dovrebbe essere varato venerdì prossimo dal Cipe servono ancora due miliardi affinché possano essere considerate cantierabili.

Torna all'archivio