[09/03/2009] Recensioni

La recensione. Economia dell’ambiente e metodi di valutazione di Giorgio Casoni e Paolo Polidori

L’approccio molto scientifico che gli autori hanno dato a questo testo è certamente un valore aggiunto, ma anche una complicazione per chi non ha una grande dimestichezza con i numeri. Specialmente la seconda parte che affronta dal punto di vista strettamente tecnico-matematico i metodi di valutazione ambientale attraverso i diversi complessi modelli. Nella prima parte, invece, i due autori affrontano il grande tema dell’economia dell’ambiente – materia di studio, spiegano, sia per giuristi, economisti, sociologi, architetti - che dimostra (o dovrebbe dimostrare) quanta strada si è fatto in questo campo. E quanto di assolutamente non ideologico ci sia dietro l’impostazione di riconversione del modello economico imperante dimostrata nei fatti dai fallimenti evidenti del mercato sul piano della sostenibilità.

Il punto di partenza è lapalissiano: «Ad accrescere l’interesse dell’economia, come scienza che studia l’allocazione efficiente delle risorse, nei confronti dei sistemi ambientali sono intervenuti fenomeni di inquinamento e di eccessivo sfruttamento che hanno orami reso l’ambiente incontaminato’ una risorsa scarsa».

Il nodo che cerca di sciogliere il testo – che vuole aiutare a comprendere come sia possibile effettuare le scelte da parte dell’uomo ‘valutando nel miglior modo possibile gli effetti che da esse derivano’ - è che se non si dà un valore economico alle risorse ambientali è praticamente impossibile che il mercato riconosca la loro importanza e quindi né riduca la dissipazione (dei flussi di energia e di materia).

«In generale – sostengono gli autori – dobbiamo stabilire i prezzi dei beni ambientali nell’intento di determinare la quantità/qualità ottimale da mettere a disposizione di una collettività. Ciò discende dall’aumentata consapevolezza da parte dei decisori pubblici che il trade off esistente tra esigenze di crescita economica e politiche di tutela ambientale deriva principalmente dalla mancata assegnazione di valori economici ai beni ambientali. Tali beni – non appropriabili privatamente, indivisibili e non scambiabili all’interno di mercati organizzati – sono utilizzati dalle attività di produzione del sistema economico a un prezzo, nella maggioranza dei casi, sostanzialmente nullo».

I sistemi economici sono sistemi aperti rispetto all’ambiente in cui essi agiscono. All’interno di questi sistemi vi è un continuo scambio di energia, materia, e informazione da e per l’ambiente. Per il loro funzionamento si rende quindi necessaria la presenza di tre fattori: il capitale naturale, il capitale culturale e, come risultato della combinazione delle prime due componenti, il capitale riproducibile. Il capitale naturale è a sua volta composto da tre elementi: risorse rinnovabili; risorse non rinnovabili; servizi ambientali. Il capitale culturale è l’insieme di fattori che forniscono alle società umane i mezzi e le capacità di adattamento necessarie per gestire l’ambiente e attivamente modificarlo. Il capitale riproducile individua i beni prodotti dal sistema economico attraverso la differente combinazione dell’attività umana, dell’ingegno e della tecnologia.

Questo il quadro, con una prima complicazione: il capitale naturale è la base per il capitale culturale, il quale a sua volta determina le diverse modalità di appropriazione delle risorse naturali da parte del (sotto)sistema economico. Ma «le tecnologie, in qualità di ‘causa efficiente’ della produzione, mascherano la dipendenza delle società dal capitale naturale, e retroagiscano modellando gli atteggiamenti conoscitivi degli individui nei confronti della natura». Nasce così l’esigenza o il problema della sostenibilità. Gli autori definiscono lo sviluppo sostenibile come «la progettazione di un sistema economico e sociale che assicuri nel tempo l’aumento dei redditi reali, e quindi l’obiettivo della crescita, ma anche l’aumento di altri indicatori quali i livelli di istruzione, i servizi sanitari ovverosia, il miglioramento della qualità della vita e dei fattori che ad essa concorrono compreso l’ambiente».

Da qui la loro proposta, dopo un viaggio nella storia della sostenibilità, di quelli che sono i migliori modelli matematici attraverso i quali valutare la sostenibilità ambientale delle azioni e dei progetti dell’uomo. Sempre in un’ottica dinamica di trasformazione dell’esistente, anche se i modelli contengono l’opzione zero, ovvero che un progetto possa essere considerato insostenibile e quindi da non fare. Sembra forse poco, detto così, ma è in realtà tutto. Il tema peraltro fa ampiamente parte del dibattito culturale – peraltro non del tutto risolto anche tra agli ambientalisti – sul fatto stesso che sia possibile (anche eticamente) dare un valore economico alle risorse stesse.

Per affrontare queste controversie, il testo approfondisce i quattro gradi di sostenibilità riconosciuti dalla letteratura scientifica: molto debole; debole; forte; molto forte. Prima però introduce sul tema della sostenibilità una riflessione che ci pare uno degli aspetti più importanti di questo testo pubblicato, lo ricordiamo, nel 2002. Più importante perché la incrociamo con la realtà che ogni giorno greeneport.it analizza, ovvero valutando le azioni di sostenibilità praticate nel mondo specialmente da quando alla crisi ecologica si sono sovrapposte quella finanziaria e quella economica.

Sostengono i due autori che “La Strategia di conservazione mondiale” pubblicata nel 1980 (Iucn) aveva già avanzato l’idea di sviluppo sostenibile sottolineando la sfida dell’integrazione tra sviluppo e ambiente. Il limite di questa “strategia” era però che non definiva con chiarezza “i legami esistenti fra economia e ambiente e quindi mancava di quei passaggi necessari alla definizione non solo teorica ma anche operata dei criteri di sostenibilità”.

Un limite determinante, perché, ricordano ancora gli autori: “L’economia studia l’utilizzazione del capitale naturale, umano e prodotto dall’uomo (o capitale riproducibile) nella prospettiva dell’efficienza, per il conseguimento del massimo benessere sociale. L’ambiente è da questo punto di vista parte integrante della materia economica. Esso è una componente fondamentale dei processi produttivi ed è anche un elemento determinante per il livello di qualità della vita degli individui”.

E ancora: “Allo stesso modo l’ambiente è fortemente influenzato dall’economia e dai processi economici, in quanto l’inquinamento e l’uso delle risorse sono quasi sempre frutto di attività economiche o dei processi antropici ad esse connessi”. Lineare, no? Come è lineare che con questo approccio è determinante “la disponibilità di capitale sia esso naturale, riproducibile, umano, morale-etico e culturale”. Certo, poi si può discutere sul fatto ad esempio che il capitale naturale non è sostituibile con quello umano o culturale oppure di quale sia il miglior modello da seguire, se quello debole, forte o molto forte, ma non si dovrebbe prescindere dal fatto che lo stock di capitale a disposizione di una generazione deve essere trasmesso a quelle future in modo che tutti abbiano sempre le stesse possibilità di sviluppo partendo appunto da un modello economico sostenibile ambientalmente e socialmente.

Invece non è così. Perché dagli anni Ottanta ad oggi il modello economico imperante è stato quello più dissipatore di energia e di materia mai visto nella storia dell’umanità, in quanto doveva sostenere una crescita potenziante ritenuta senza limiti resa possibile da un consumismo sfrenato che vedeva nello stile di vita dell’uomo medio americano l’orizzonte cui tutto il modo doveva aspirare. Oggi però sappiamo tutti quell’uomo che fine ha fatto e che razza di sterzata sta operando il neo presidente Obama per rimediare alla catastrofe realizzata dai suoi predecessori da Reagan in avanti. Cambiare modello, quindi, non significa andare a pescarne uno su Marte ma tornare a far mettere – come diciamo sempre – i “piedi in terra”, specialmente alla politica e agli economisti che a un certo punto si sono dimenticati del tutto che sperperando le risorse naturali e minandole e dissipandole, la prima cosa che sarebbe crollata era proprio l’economia. Stern è stato uno degli economisti che meglio ha evidenziato negli ultimi anni questo fondamentale aspetto con il suo famoso rapporto, ma non è stato né il primo né il solo.

Che fare dunque? La decrescita, lo stiamo vivendo sulla nostra pelle, non è per niente felice perché se anche le emissioni di gas serra o i flussi in generale di energia e di materia si saranno ridotte a causa di un’economia praticamente in recessione ovunque, e che ha fermato migliaia e migliaia di fabbriche, dal punto di vista sociale l’impatto di milioni di posti di lavoro persi è devastante e insostenibile. Stendiamo poi un velo pietoso sulle teorie di dematerializzazione dell’economia e dell’autoregolamentazione del mercato che in questa crisi sono affondate come il Titanic colpito dall’iceberg e soffermiamoci invece sul fatto che, come dimostra anche questo testo, l’economia e quindi almeno una parte degli economisti sanno bene che cosa stia sopra e cosa stia sotto rispetto all’ecosistema.

Dato per scontato che se l’economia non riparte neanche la si riorienta verso la sostenibilità, per farlo il modello del Green New Deal di Obama appare tra i più avanzati perché in grado di metter mano alla riduzione di flussi di energia e di materia senza far pagare il prezzo totalmente ai lavoratori. Una green economy che ha un bisogno vitale di modelli di valutazione come quelli proposti da Casoni e Polidori, autori appunto dei libro, con un’ultima annotazione per noi importante: di fronte ad un progetto, al netto di tutte le considerazioni e valutazioni ambientali, serve poi che la politica in generale i decision maker abbiano ben assimilato il concetto di sostenibilità e attraverso questo scelgano cosa fare e come farla. Se le istituzioni credono che siano i modelli di costi/benefici a toglierli da tutti gli oneri e gli onori di fare le scelte, sbagliano di grosso. Lo vediamo ogni giorno in ogni parte almeno d’Italia, dove nella bufera delle contestazioni finisce di tutto, energie rinnovabili comprese con o senza valutazioni di qualsiasi tipo. E spesso si assiste a sindaci e ad assessori che si schierano dalla parte dei comitati magari contro progetti che loro stessi hanno portato avanti o qualcuno del loro stesso partito. Non solo, la politica marketing ci ha dato spettacolari esempi di amministrazioni che predicano il porta a porta spinto per migliorare la raccolta differenziata e poi non riescono a costruire un impianto di compostaggio sul proprio territorio. Oppure incensano le rinnovabili e poi fanno regolamenti edilizi che nei fatti ne bloccano completamente la realizzazione. In questi casi i modelli di valutazione aiutano, certo, ma non risolvono un bel niente.

La sostenibilità, invece, deve essere praticata a tutti i livelli, dal più alto – una governance mondiale dell’economia capace di riorientarla verso un modello che riduca l’impatto dell’uomo sul pianeta – fino a quello più basso, il piccolo comune con i suoi strumenti di governo. E i metodi di valutazioni devono aiutare le scelte e non sostituirsi a quelle, perché come sappiamo bene anche le tesi scientifiche da chi non è d’accordo con quello o quell’altro progetto vengono legittimamente contestate. E questo non significa agire in spregio a qualunque forma di confronto, bensì fare fino in fondo il proprio dovere di scelta e sostenerla anche davanti a chi quella scelta non la condividerà di fronte a qualsivoglia (legittimo e auspicabile) miglior modello di valutazione possibile.

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