[30/03/2009] Recensioni

La Recensione. Cuore e ambiente di Claudia Bettiol

LIVORNO. Quali interazioni tra la passione e la razionalità umana sono coinvolte nell’attivazione di comportamenti e pratiche finalizzati alla difesa dell’ambiente e alla sostenibilità? Qual è la relazione tra le politiche ambientali comunemente intese, le generali politiche sociali e il percorso evolutivo che coinvolge gli individui e le società umane nella loro interezza?

Le risposte a queste domande costituiscono l’ossatura dell’e-book di Claudia Bettiol. L’autrice, docente dei corsi di Negoziazione urbanistica e di Fonti rinnovabili presso la facoltà di Ingegneria di Tor Vergata, prende come spunto per la sua analisi quella che definisce come la necessità di «de-ideologizzare alcune questioni per permettere una condivisione più ampia dei problemi aperta a tutti coloro che vogliono sognare senza mediazioni di significato». Le questioni da de-ideologizzare, secondo Bettiol, sono appunto quelle legate alla sostenibilità, all’energia, allo stesso cambiamento climatico.

Il presupposto di fondo, nel parere dell’autrice, è che l’approccio umano alla “difesa dell’ambiente” (prima) e alle più ampie questioni inerenti alla sostenibilità (oggi), nasce sì da un razionale calcolo rivolto alla conservazione dell’habitat della nostra specie, ma è necessariamente corroborato da un’attivazione emotiva, “del cuore”. Anzi, se l’approccio scientifico-razionale è la base della comprensione del problema ambientale e costituisce la legna posta alla base della catasta, è l’emozione (la cui etimologia risale al latino e-movere, “muoversi da”) a costituire una insostituibile scintilla per accendere il fuoco della rivoluzione ambientale ed energetica. Per dirla con le parole dell’autrice, in un qualsiasi fenomeno di attivazione politica di matrice sociale/ambientale «l’elemento scatenante è sempre razionale, come la tassa sul tè per la rivoluzione americana o il pane per quella francese, ma l’azione è determinata solo dai cuori».

In realtà, in alcune parti la validità stessa di un approccio scientifico alla sostenibilità è messa fortemente in discussione: rifacendosi alla fisica quantistica (e, senza citarlo esplicitamente, al noto principio di indeterminazione di Heisenberg), Bettiol spiega come a suo parere sia impossibile «astrarre un sistema fisico dal contesto in cui è inserito ed osservare quello che avviene al suo interno come se fossimo completamente esterni ai fenomeni», poiché «la nostra interazione con l’ambiente modifica la percezione che abbiamo di esso». E’ quindi necessario, secondo questo ragionamento, «superare Cartesio e cercare di fare nostre valutazioni soggettive sull’ambiente», cioè evolvere il “penso dunque sono” in un più adatto “penso e sento, quindi sono”.

Questo concetto è meglio comprensibile nell’ambito della comunicazione e della politica ambientale, in particolare se teniamo presente l’obiettivo di svolgere una comunicazione (o di attuare una politica) che sia il più possibile universale, cioè che punti ad indurre reazioni (sia razionali, sia emotive) in un range di persone il più ampio e variegato possibile: richiamandosi alla piramide dei bisogni di Maslow, che suddivide gli individui a seconda del tipo di bisogni che hanno (dai bisogni primari – fisiologici - a quelli di sicurezza, fino a bisogni più tipici di società o individui più benestanti, e cioè il bisogno di appartenenza, di stima, di autorealizzazione) l’autrice sostiene che la comunicazione ambientale ha troppo spesso il difetto di non considerare i diversi stadi di necessità degli individui, e quindi non riesce a raggiungere tutti con la stessa incisività.

Al pari, la politica ambientale è stata caratterizzata, nella sua nascita e crescita, da un irrigidimento intorno a simboli che erano condivisi da chi faceva parte del “gruppo ristretto” (es. il singolo movimento ambientalista, ma anche l’intero mondo delle associazioni che ruotano intorno a questa comune piattaforma), ma che erano sostanzialmente incomprensibili da chi era al di fuori di questo cerchio.

Occorre quindi, secondo Bettiol, trattare la sostenibilità adottando un codice comunicativo che sia comprensibile allo stesso modo sia da chi vive in condizioni di povertà e fame (e quindi ha bisogni primari, come l’alimentazione, e secondari, come la protezione), sia da chi vive nelle società del benessere dove i bisogni primari sono generalmente soddisfatti. Ma senza dimenticare che «la questione ambientale è fondamentalmente una roba da ricchi», cioè solo quando i bisogni primari sono soddisfatti gli individui possono indirizzare le loro energie verso quelli successivi, e cioè verso quella necessità di appartenenza, di stima e di autorealizzazione che portano, tra le altre cose, all’attivazione di pratiche e iniziative tendenti alla sostenibilità: «l’esigenza di sentirsi utile, socialmente o ambientalmente, resta un affare da ricchi, da persone che hanno già soddisfatto tutti gli altri bisogni. Ed infatti la questione ambientale si è cominciata a porre proprio nelle economie occidentali, quelle economicamente più avanzate dove il benessere cominciava ad essere maggiormente diffuso e ciascuno aveva l’opportunità di emergere dal “mucchio” e di alzare il proprio stile di vita».

Se, invece, «i territori più poveri diventano la pattumiera dell’occidente» è perchè «il loro livello nella scala gerarchica di bisogni gli impedisce di vedere l’entità dei danni che possono essere arrecati al loro ambiente a causa di una loro speculazione selvaggia».

Questa sorta di “codice condiviso” cui si riferisce l’autrice deve comprendere maggiormente gli aspetti empatici della comunicazione, deve cioè sollecitare, più che il cervello (la razionalità), il cuore, cioè l’emotività degli individui. Deve avere, cioè, l’obiettivo di conservare quell’entusiasmo e quella capacità di indignazione che ci caratterizzano nell’età giovanile, rendendoli però compatibili con la percezione della necessità di compromessi che caratterizza una politica di perseguimento della sostenibilità.

Dall’altra parte, come detto sopra, la comunicazione e la politica ambientale vanno de-ideologizzate e ricondotte «su temi di interesse comune. Solo in questo modo si può passare “dalle parole ai fatti” ed incanalare le energie e le passioni dei giovani cuori verso la realizzazione dei loro sogni. E’ un sano pragmatismo, spogliato dalle demagogie, che può portare ad una maggiore armonia fra uomo e ambiente» e che può far sì che «il rispetto dell’ambiente» possa diventare, dopo la caduta delle ideologie, «il tema su cui fondare un nuovo concetto di Stato».

“Cuore e ambiente”, pur nella sua compattezza, è opera complessa e affascinante. Non mancano comunque elementi che non convincono: nella visione dell’autrice, la volontà di quantificare i “rischi ambientali” è cimento sostanzialmente illusorio, per il motivo sopra esposto legato alla sostanziale indefinibilità di un sistema, se visto dal suo interno. Ad esempio, Bettiol sembra esprimere forti perplessità sulla nostra capacità di quantificare con esattezza l’effettivo forcing antropico nel surriscaldamento globale: «pensare» – scrive infatti - «che i cambiamenti che avvengono sul pianeta siano da attribuire esclusivamente all’azione antropica è come affermare che prima della comparsa dell’uomo sul pianeta i cicli naturali si ripetevano immutabili per giorni, mesi, anni, millenni. Se non avessimo coscienza dell’assurdità di questa affermazione potremmo veramente credere di essere gli unici imputati da giudicare. Però, sotto sotto, l’idea che con un comportamento diverso riusciremmo a riportare il pianeta all’imperturbabilità si fa strada nei nostri cuori molto più di quanto non riusciamo ad immaginare. Ci conforta quasi il fatto che si possano ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera con un trattato che, se applicato alla lettera, porterebbe molte economie occidentali in uno stato di profonda recessione».

Questa impostazione, vagamente eco-scettica, è individuabile anche nella constatazione per cui, sempre nel parere dell’autrice, «illudersi che le fonti rinnovabili di energia possano risolvere il problema del deficit energetico sempre maggiore, in tutti i paesi sviluppati ed in quelli in via di sviluppo, significa rifiutarsi di vedere la realtà. Sognare l’impossibile». Anzi, « la sostituzione dei combustibili fossili con quelli rinnovabili appare abbastanza irreale» anche se « non possiamo neanche trascurare il fatto che le fonti non rinnovabili, per lo stesso significato semantico della parola, andranno a diminuire mentre il loro prezzo ed il tributo di sangue alla loro estrazione aumenterà». Secondo questo ragionamento, le rinnovabili sono da intendere più come un « mezzo per educare, per aiutare i cuori dei giovani a convogliare le loro energie in azioni positive ed attive, per ritrovare l’equilibrio personale con l’ambiente naturale e con quello artificiale», piuttosto che un reale sostituto dei combustibili fossili.

Una impostazione, appunto, che appare avere delle connotazioni di eco-scetticismo, anche se poi l’obiettivo che si pone l’autrice non è certo la penalizzazione delle politiche di sostenibilità, ma anzi la loro universalizzazione attraverso l’adozione di un «nuovo linguaggio» che riesca ad attivare non solo i cervelli, ma anche i cuori. C’è in buona sostanza una contraddizione di fondo: l’obiettivo di de-ideologizzare la sostenibilità in modo da portarla verso una comune condivisione passa, attraverso l’autrice, attraverso l’abbandono di una concezione (e di una comunicazione, e di una politica) eccessivamente improntata al razionalismo, e troppo poco all’empatia, all’emozione.

Ma la de-ideologizzazione della sostenibilità è obiettivo anche di chi cerca di evolvere l’ambientalismo tradizionale verso un ambientalismo scientifico, cioè che attraverso la contabilizzazione dei flussi punta a stabilire in via il più possibile oggettiva quale sia, in qualsiasi attività economica, il prelievo-soglia da considerarsi sostenibile, e oltre il quale ci sia invece l’insostenibilità. Questo approccio viene adottato proprio con l’obiettivo di giungere ad una scienza della sostenibilità, che superi quell’eccesso di “cuore” (cioè di approccio romantico, emotivo, e in ultima analisi velleitario) che in passato ha caratterizzato, e penalizzato, il percorso di affermazione della sostenibilità come paradigma fondamentale e condiviso del mondo produttivo e della società.

La conclusione cui giunge Bettiol è la necessità di riarmonizzare, nella politica ambientale, il cuore e la ragione, alla stessa maniera in cui la coppia taoista dello yin e dello yang «si susseguono indefinitamente in una continua alternanza e quando uno di questi è al massimo contiene dentro di sé gli elementi per far crescere l’altro». Il principio è giusto, ma forse in questo momento, dopo anni e anni in cui la politica ambientale è stata ispirata più da spiritualismo e buona volontà che da un criterio scientifico, è necessario prima di tutto percorrere la strada che punti ad una sempre maggiore scientificità dell’approccio adottato. Gli anni della “presa di coscienza”, cioè, sembrano in questo momento della storia in via di superamento, e nella fase attuale sembra essere, come dice il neo-presidente Obama, necessario “ridare alla scienza” (più che alla coscienza) il posto centrale nella politica energetica e ambientale. Questo perchè solo la scienza può condurre all’oggettività, e solo l’oggettività può portare a politiche condivise.

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