[15/04/2009] Comunicati

I pirati dello Stato fallito e l’invincibile Armada

LIVORNO. Secondo il rappresentante speciale dell’Onu per la Somalia, Ahmedou Ould-Abdallah, la pirateria è un febbre internazionale che causa danni ai somali, alla regione ed al mondo.
«Credo fermamente che degli sforzi concreti, come la presenza marittima internazionale al largo della costa somala, devono essere aumentati per aiutare ad isolare e reprimere la pirateria», ha detto Ould-Abdallah secondo il quale «300 ostaggi e 17 navi sono prigionieri di un piccolo gruppo che è solamente interessato a massimizzare dei profitti illegali».

Ma l’inviato dell’Onu non si nasconde che dietro la pirateria ci sono problemi che derivano dallo sfarinamento della Somalia come Stato e da condizioni economiche, sociali e ambientali disperate: «Di conseguenza una soluzione militare dovrebbe essere il complemento di una credibile attività di sviluppo. Senza la presenza marittima, la pandemia avrebbe potuto essere peggiore. Coloro che contribuiscono alla presenza internazionale fanno un eccellente lavoro, ma hanno da coprire una vasta regione. Le recenti azione di estrema difesa dei governi degli Stati Uniti e della Francia inviano un messaggio forte ai pirati e soprattutto ai loro sostenitori che sfruttano la loro povertà e la disperazione dei giovani compatrioti senza lavoro. Per garantire la stabilità in Somalia e nella regione, così come la libertà di navigazione, I sostenitori finanziari dei pirati devono essere identificati rapidamente e considerati responsabili».

Quello che è certo è che la filibusta somala sta bloccando con le sue azioni uno dei nodi strategici dei traffici marittimi mondiali, il Golfo di Aden, dove passano merci e petrolio verso l’Europa e che gli stessi Paesi che hanno lasciato marcire il conflitto somalo in guerre tribali ed integralismo religioso e che hanno assistito senza muovere un dito alla creazione di due Stati autoproclamatisi indipendenti (Puntland e Somaliland) ora accorrono davanti alle loro coste per fermare i barchini dei pirati che da una quindicina di mesi moltiplicano gli abbordaggi a petroliere, mercantili e panfili.

I nuovi pirati dell’Oceano indiano sono in realtà “straccioni” pesantemente armati che dispongono di speed-boats ben riforniti che solo nel 2008 hanno causato 111 attacchi (il doppio del 2007) nell’area tra il Canale di Suez e l’oceano Indiano e la cui responsabilità probabilmente non è tutta dei somali.

I clan somali, che dominano ciò che resta della politica e gli affari del Paese, si sono riconvertiti nella pirateria ed attualmente terrebbero in ostaggio 14 navi e 260 persone. Si calcola che in un anno abbiano intascato qualcosa come 10 milioni di euro di riscatti da armatori e governi. Un bottino che finisce in gran parte in armi e barchini superveloci che permettono di espandere il loro raggio di azione, trasformando il Golfo di Aden in una specie di ragnatela di un milione di chilometri quadrati nella quale si muovono i ragni famelici della nuova filibusta.

La pirateria parte soprattutto da quella che fu la Somalia Britannica, ma i sanguinosi rivolgimenti politici che ne hanno fatto da levatrice affondano le radici nel dimenticato passato coloniale italiano e nella sequela di sanguinari sbagli seguiti alla caduta dell’ex carabiniere italiano e dittatore Siad Barre, passato dalla fedeltà all’Unione Soviatica all’amicizia con gli Usa.

Oggi la Somalia è l’esempio più clamoroso degli “Stati falliti”, figli abbandonati della fine della guerra fredda e avamposti del nuovo disordine mondiale.

Uno Stato spappolato in zone di influenza e senza alcun potere centrale vero: i Tribunali islamici controllano il centro-sud del Paese; a Mogadiscio c’è un governo ufficiale privo di qualsiasi potere; i clan tribali controllano pezzi della stessa capitale e “signorie” sparse per la Somalia; i due Stati “indipendenti” del Puntland e del Somaliland si dedica alla pirateria o a traffici e contrabbando in tuttal’area tra il Corno d’Africa e la penisola arabica... Tutti questi governanti, pirati, signori della guerra sembrano non curarsi delle condizioni di vita di un popolo colpito da una siccità eterna, da cambiamenti climatici devastanti ed al quale i predoni non fanno giungere nemmeno gli aiuti internazionali.

Il fenomeno della pirateria è spuntato negli anni ’90, quando i grandi pescherecci industriali giapponesi e sudcoreani (ma anche occidentali) approfittando della fine della dittatura di Siad Barre e della sparizione dello Stato, penetrarono impunemente nelle acque territoriali somale saccheggiandole e riducendo alla miseria i piccoli pescatori locali che così iniziarono ad attaccare le navi straniere esigendo una “tassa” che compensasse il loro mancato guadagno. A questo si aggiunse presto lo scarico di rifiuti tossici nelle acque e sulle coste somale approfittando dell’assenza di controlli e della complicità di clan e gruppi di predoni.

Alla fine questo ha prodotto un salto di qualità e la pirateria “artigianale” e per disperazione si è trasformata in un esercito ben armato, munito di telefoni satellitari e di imbarcazioni velocissime. All’inizio i Tribunali islamici hanno cercato di opporsi nelle aree da loro controllate, ma a quanto pare oggi si sarebbero adeguate e controllerebbero direttamente alcuni nuclei di predoni dei mari.

Alla fine si è dovuto muovere il Consiglio di sicurezza dell’Onu che nel 2008 ha autorizzato le navi militari straniere ad intervenire. Al largo della Somalia staziona una “invincibile Armada” che vede impegnati i Paesi Nato, la Cina, l’India e altri Paesi che cercano di non far diventare la pirateria ancora più allarmante. I media occidentali giustamente gioiscono per la liberazione degli ostaggi americani e francesi e ci preoccupiamo per la crudele sorte dei marinai italiani, ma quanti sanno o ricordano che i nuovi pirati del Golfo di Aden tengono prigionieri 260 marinai e che 90 di questi sono filippini e decine sono i thailandesi, i pakistani e di altre nazionalità che affollano dimenticati le stive delle navi del mondo per far navigare le merci globalizzate e il petrolio lungo le vene vitali dell’economia mondiale?

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