[28/04/2009] Consumo

Febbre suina. Per Legambiente la colpa delle epidemie è dell’allevamento intensivo industriale

LIVORNO. Secondo Legambiente «per fermare la febbre suina che si sta diffondendo rapidamente nel mondo, per scongiurare il pericolo di nuove ondate di Sars o di altre epidemie di origine animale basterebbe modificare i sistemi di allevamento intensivi, ormai riconosciuti come causa scatenante delle pandemie ma ancora praticati senza limiti in tutto il pianeta». Il responsabile agricoltura del Cigno verde, Francesco Ferrante, sottolinea che «L’allevamento intensivo industriale prevede la produzione di carni e derivati animali attraverso un vero e proprio sistema di detenzione in edifici di cemento di migliaia di animali della stessa specie, della stessa razza, della stessa età e dello stesso sesso, in ambienti minimi, illuminati artificialmente, assolutamente inadeguati anche per le esigenze primarie delle specie allevate. La somministrazione forzata di cibo sottoforma di mangime, più spesso chimico che naturale, e la spaventosa concentrazione di nitrati difficilmente smaltibili in modo consono, contribuiscono allo sviluppo di virus sempre più forti e pericolosi prima per gli animali e poi, con le successive modifiche, per gli uomini. Già negli anni ’90, la comunità europea aveva tentato di porre dei rimedi a questo stato di cose con alcune direttive importanti, mirate alla mitigazione degli impatti sanitari e ambientali di questo modello di allevamento. Ma la direttiva nitrati del 1991, come la successiva direttiva sul benessere animale o la messa la bando della gabbie per le galline ovaiole non hanno mai trovato applicazione effettiva negli Stati membri e in Italia addirittura non si riesce a imporre la necessaria regolamentazione sui nitrati che continuano a inquinare terreni e falde acquifere se non i prodotti alimentari veri e propri».

Non è servita nemmeno la lezione dell’influenza aviaria del 2005 - 2006, con la morte di diverse persone e lo sterminio di 300milioni di volatili per convincere il sistema dell’allevamento industriale a sostituire il suo modello con uno più sostenibile e equilibrato. La corsa ai profitti ed alla diminuzione dei costi ha portato a cibare gli animali da allevamento con sottoprodotti industriali come le farine animali, gli Ogm, che costano meno anche per facilitarne la diffusione e il consumo, gli oli esausti. Ed allora niente ci è stato più risparmiato ed il cibo diventa periodicamente un rischio: polli alla diossina, mucca pazza, vitelloni anabolizzati, uova all´antibiotico…

«Ancora oggi – dice Ferrante - vediamo in alcuni paesi del Veneto allevamenti che contano per 28mila polli per chilometro quadrato, o 10mila maiali stipati in 7mila metri. Eppure ogni operatore del settore sa che questo metodo di allevamento oltre a produrre una cattiva qualità di derivati animali, impone una selezione delle razze sempre più dipendenti dagli interventi dell´uomo, dal consumo di antibiotici, da una gestione sempre più articolata e innaturale dei reflui e dei nitrati, causa della produzione di virus e malattie».

«Evidentemente - conclude Ferrante - il modello agricolo della chimica negli allevamenti intensivi senza regole è arrivato al capolinea. E’ urgente un radicale ripensamento del settore che metta al centro la qualità e l’equilibrio con la natura, in modo da poter avere prodotti buoni e sicuri per la salute. Ciò, inevitabilmente, determinerà anche il cambiamento di alcune nostre consolidate abitudini alimentari. Ma non ci sono scorciatoie. E’ urgente intervenire, e lo confermano anche numerosi medici e studiosi del settore».

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