[29/04/2009] Urbanistica

Tra nimby e consumo di suolo: verso una governance del territorio?

FIRENZE. In una partita a scacchi, una corretta e costante analisi della disposizione dei pezzi sulla scacchiera costituisce viatico fondamentale per giungere all’obbiettivo. Se noi osserviamo il dibattito sul consumo di suolo alla luce di questo, possiamo considerare come “pezzi” disposti sulla scacchiera i vari attori in gioco (il Governo, le regioni, gli enti locali, gli urbanisti, le associazioni ambientaliste “ufficiali”, i comitati): la differenza con una vera partita a scacchi sta nel fatto che l’obiettivo finale è comune (un governo del territorio improntato alla sostenibilità), e che anzi lo “scacco matto” dato da un attore all’altro sarebbe la sconfitta di tutti, cioè porterebbe all’assenza sia di limiti quantitativi allo sviluppo delle aree artificializzate, sia di quella attività pianificatoria che – se ben gestita, e da persone competenti e oneste – ha come primo risultato quello di contrastare l’anarchia edilizia e, quindi, di introdurre elementi di sostenibilità dello sviluppo urbano e in generale del consumo di suolo.

Renzo Moschini, nel suo intervento su greenreport di lunedì 27, parla del dibattito sul consumo di suolo che è stato rinfocolato dalla pubblicazione del rapporto Irpet sul territorio, e in particolare riporta la diatriba che da inizio aprile è in corso tra l’urbanista Gianni Beltrame e Legambiente Lombardia: il casus belli è una legge di iniziativa popolare sul consumo di suolo che l’associazione ambientalista ha presentato, e in cui sono presenti concetti ripresi, tra le altre fonti, anche dalla legge 1/2005 della regione Toscana sul governo del territorio. Detta legge 1/05, all’articolo 3, parla infatti dei «nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali», che sono «consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti», e questa formulazione è ripresa in modo quasi pedissequo all’articolo 1 della legge proposta dal Cigno lombardo.

Ora, la legge toscana 1/2005, a detta di molti analisti, è stata praticamente disattesa fin dalla sua entrata in vigore. Questo perchè, se applicata rigorosamente, avrebbe davvero dovuto spingere la prua della pianificazione verso una crescita “quasi zero” del consumo di territorio, e avrebbe dovuto dare il la a quella sostituzione del concetto di crescita urbana con quello, ben più improntato alla sostenibilità, di “sviluppo” e di riqualificazione urbana. Ma così non è stato, anche se secondo dati Irpet la crescita delle aree artificializzate in Toscana è scesa da un tasso dell’1% annuale (10% dal 1990 al 2000) ad uno dello 0,5% (3% dal 2000 al 2006), ma non certo per gli effetti di una legge entrata in vigore nel 2005. A questo proposito, ricordiamo anche la fondamentale differenza tra la precedente legge toscana 9/1995 (art.4: «nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono di norma consentiti quando non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione dell’esistente») e quella di dieci anni dopo, in cui quel “di norma” è sostituito dal ben più cogente termine “esclusivamente”.

Una legge, la 1/2005, che avrebbe dovuto rappresentare il trionfo della pianificazione e il suo definitivo sposalizio con la sostenibilità, si è invece rivelata un coacervo di buone intenzioni. In questo senso, si può dire che Beltrame avrebbe teoricamente ragione nel rivendicare per la pianificazione il ruolo principe nel governo sostenibile del territorio, ma che sbaglia nel vedere la pianificazione di per sé come argine allo sviluppismo, alla cementificazione selvaggia, al consumo di suolo improntato all’ingordigia e non al bene comune.

Così non è: l’argine allo sviluppismo non è la pianificazione in sé, ma la sua evoluzione da strumento di governo a strumento di governance del territorio, cioè se la pianificazione non è partecipata essa si riduce ad una mera crescita pianificata, mentre l’obiettivo fondamentale deve essere, come detto, uno sviluppo pianificato.

Tra le regioni italiane, solo la Toscana ha approvato una legge (la 69/2007) sulla partecipazione civica e amministrativa al governo del territorio, e solo ora cominciano ad essere attuati progetti derivanti da pratiche partecipative. La partecipazione ha i suoi indubbi vantaggi, e i suoi indubbi difetti (ad esempio, spesso essa può costituire un pretesto per impedire/rimandare le scelte), ma essa deve necessariamente evolversi da “buona pratica” a “strumento intrinseco di governo del territorio”: e forse è solo tramite la partecipazione (e in particolare tramite i processi di “educazione reciproca e permanente” tra decisori e stakeholder che sono insiti in essa) che la pianificazione può diventare (ri-diventare?) elemento di tutela del territorio, e non di attuazione burocratica del suo progressivo impoverimento.

Altro interessante spunto introdotto da Moschini è l’aspetto relativo a quella che in apertura chiamavamo appunto “la disposizione dei pezzi sulla scacchiera”, e cioè quella attribuzione di “posizionamenti politici” ai comitati e in generale alle posizioni comunemente riassunte nell’acronimo Nimby. Moschini giudica questo tentativo di «definire le varie posizioni collocandole ora a sinistra, ora a destra» come «rischioso».

Ed è abbastanza chiaro che, nella galassia dei movimenti e dei comitati, i concetti di “destra” e “sinistra” diventano più sfumati che in altri ambiti di confronto politico. Il fatto è che, però, le rivendicazioni locali negli ultimi tempi hanno inteso unirsi in una piattaforma comune, in una Rete che già su greenreport definimmo come ispirata al principio del “comitati di tutto il mondo, unitevi”. E, a parte che questa rete ha finora trovato sbocco politico solo ed esclusivamente in partiti della cosiddetta sinistra radicale, è indubitabile come questa alleanza vada prima di tutto a contrastare non quello che dovrebbe essere il “nemico comune”, e cioè la politica del Governo e la sua esplicita volontà di scippare la pianificazione territoriale agli enti locali (alla faccia del federalismo), ma che essa abbia preso (perlomeno in Toscana) come principale avversario politico proprio l’amministrazione di centrosinistra.

E questo è stato un errore, poiché il risultato è stata una radicalizzazione dello scontro tra “cugini” (analoga a quanto avvenuto in altri ambiti politici) che ha portato oggi ad un ulteriore allontanamento tra le posizioni: la Regione ormai sembra vedere i comitati come fumo negli occhi, mentre dall’altra parte si grida allo “scempio paesaggistico” anche per la messa in opera di impianti eolici accanto a discariche. Manca, in questa fase, una benché minima volontà di individuare obiettivi comuni, sia per quanto riguarda gli aspetti legati all’energia sia riguardo al consumo di suolo in sé. E mancano, purtroppo, anche dati condivisi sull’effettivo consumo del territorio: a questo proposito, ricordiamo che il rapporto Irpet sul territorio stima un consumo annuale nazionale di circa 8.200 ha/anno, mentre dati provenienti dalla rete contro il consumo di suolo parlano di quasi 250.000 ha consumati all’anno. Una differenza enorme, sia pure sicuramente motivata anche da diverse metodologie di rilevamento.

E con questi chiari di luna, dall’altra parte del fiume la destra ha buon gioco ad attribuire la sgradevole qualifica di “Nimby” ad ogni rivendicazione di dissenso territoriale, e a produrre proposte di legge nazionale finalizzate a tagliare le gambe non solo alle rivendicazioni di pura matrice Nimby, ma in generale ad ogni manifestazione di dissenso (anche se poi a livello locale e pure regionale lo stesso centrodestra è a dir poco vittima del Nimby, per non dire più semplicemente che sta quasi sempre con i comitati dove la maggioranza è di centrosinistra). E questo gioco è praticato anche dalle autorità toscane, per esempio quando motivano l’ostilità di molte associazioni alla realizzazione dell’autostrada tirrenica con la presenza delle “ville dei vip” a Capalbio, quasi che alla realizzazione di un’autostrada ex-novo in zone delicate come la Maremma potesse opporsi solo qualche radical-chic motivato dalla volontà di difendere il proprio giardino.

La situazione è comunque magmatica, e siamo certi che nei prossimi anni (probabilmente con l’approssimarsi delle prossime elezioni politiche nazionali, che si terranno nel 2013 se sarà seguito il regolare corso politico) i necessari compromessi tra le due anime della sinistra saranno individuati, anche su questo ambito politico. Ma fino a quel momento, finché tra questi opposti radicalismi (quello del Governo, e quello dei “comitati organizzati”) non saranno gettati dei ponti solidi, iniziative meritorie come la legge sulla partecipazione resteranno, all’atto pratico, al palo. E forse non sarà con la sola partecipazione, ma di sicuro non sarà nemmeno tramite il giocare sul “Nimby-non Nimby” (analogamente a quanto fa la destra) che il riformismo potrà essere davvero quel “pontifex” nel governo del territorio al cui ruolo sostiene di aspirare: anzi per ora, più che elemento di compromesso, rischia di rivelarsi un vaso di coccio tra due vasi di ferro o – peggio – di porsi come “vaso di ferro” esso stesso, davanti al vaso di coccio rappresentato dal suolo su cui viviamo.

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