[08/05/2009] Comunicati

Obama sull’orlo del vulcano afghano-pakistano

LIVORNO. Barack Obama ha convocato a Washington il presidente dell´Afghanistan Hamid Karzai e quello del Pakistan Asif Ali Zardari per cercare di tappare l’enorme falla che si sta aprendo nella già disastrata diga pakistana che non è mai stata davvero in grado di arginare il fiume impetuoso dell’estremismo talebano. Obama ha parlato di «cooperazione senza precedenti» tra i due Stati asiatici e gli Usa, ma ha ammesso che «c’è ancora molto da fare» perché il Pakistan e l’Afghanistan possano davvero contrastare la minaccia dei talebani e di Al-Qaeda: «Lungo le loro frontiere dove gli insorti si spostano spesso in tutta libertà, dobbiamo operare di concerto in un rinnovato spirito di partenariato per condividere le informazioni e coordinare i nostri sforzi al fine di isolare, individuare ed eliminare il nostro nemico comune. Ma noi dobbiamo anche contrastare la minaccia del terrorismo attraverso un programma positivo di crescita e di possibilità economiche».

Obama ha nell’area forse la sua più grossa e scottante grana: il Pakistan è in fiamme e l’Afghanistan si prepara alle elezioni con almeno la metà del territorio occupato dai talebani e dove ogni tentativo di offrire alternative alla coltivazione di papaveri da oppio è miseramente fallito, tanto che dopo anni di guerra per “liberare “ il Paese ora il Presidente Usa si trova costretto in una posizione difensiva: «Dobbiamo appoggiare la tenuta di elezioni nazionali libere ed aperte in autunno ed aiutare a proteggere i diritti fondamentali che gli Afghani hanno ottenuto con tante sofferenze. E dobbiamo appoggiare le competenze dei governi locali perché si levino contro la corruzione che ostacola il progresso».

Obama è sull’orlo di un precipizio che non ha scavato ed è costretto a fare concessioni a regimi deboli e impresentabili, nei quali i diritti umani e femminili sono spesso una parvenza, per non aprire agli integralisti Pakistani (magari con l’ennesimo colpo di Stato militare) le porte dei missili nucleari ed ai talebani afghani quelle di Kabul alle quali stanno già bussando. Ora, il rischio più grosso è quello pakistano dove una fragilissima democrazia clientelare trema sotto i colpi delle tribù insorte, tanto che Obama ha descritto l’attuale situazione come «Il più grande pericolo che minaccia lo Stato pakistano» ed ha chiesto al Congresso finanziamenti duraturi per costruire scuole e ospedali in Pakistan: «Vorrei che il popolo pakistano comprendesse che gli Stati Uniti non sono solo contro il terrorismo, noi siamo anche vicini alle vostre speranze ed alle vostre aspirazioni perché sappiamo che l’avvenire del Pakistan deve essere determinato dal talento, dall’innovazione dall’intelligenza del suo popolo».

Ma mentre Obama spera, Al-Qaeda si rafforza in Pakistan e in Afghanistan i bombardamenti di civili fanno crescere l’odio per la spedizione Nato-Usa e l’appoggio ai talebani. Così Obama promette benessere ed istruzione ma decide anche di destinare per il 2010 più dollari alla Guerra in Afghanistan (65 miliardi) che a quella in Iraq (61 miliardi), evidenziando così nero su bianco nel bilancio Usa un cambio di priorità dettato dal franare di una situazione già esplosiva che i precedenti gioverni neo-con hanno creato infilandosi con inconcepibile goffaggine in una delle aree più instabili del mondo. I soldati Usa in Afghanistan arriveranno a 68 000 per cercare di frenare la marea montante dei talibani che ormai ha fatto di gran parte del Paese e delle vicine aree tribali pakistane un unico califfato integralista che non risponde più alle leggi degli Stati.

Il rappresentante straordinario degli Usa per l´Afghanistan e il Pakistan, Richard Holbrooke, ha detto che occorre stroncare in ogni maniera la rivolta talebana in Pakistan: «Un Pakistan stabile, messo in sicurezza e democratico è essenziale per proteggere gli interessi Usa in materia di sicurezza nazionale. L´obiettivo strategico fondamentale del Presidente Obama è quello di perturbare la rete di Al-Qaeda, di smantellarla e finalmente di batterla così come di sopprimere i suoi rifugi in Afghanistan e in Pakistan», ma Holbrooke non si nasconde che il Pakistan è «Uno Stato in preda a delle pressioni enormi in campo sociale, politico ed economico». E intanto sui giornali Usa, per esorcizzare la paura che i missili nucleari pakistani finiscano in mano ai talebani ormai spintisi fino alle porte di Islamabad, fioccano le vignette.

I talebani sono scesi dalle loro montagne attaccando direttamente l’esercito e migliaia di persone sono fuggite dai combattimenti nella Swat Valley, nella turbolenta e praticamente indipendente North West Frontier Province (Nwfp), arrivando fino ad Islamabad, ma molti di più restano in mezzo ai combattimenti. Prima dell’ultima ondata di profughi in Pakistan c’erano tra i 462.000 e i 555.000 sfollati interni, spesso in condizioni disperate.

La situazione preoccupa sempre di più l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhacr) che cerca di rafforzare la già imponente macchina dell’assistenza umanitaria in Pakistan. Secondo il capo dell’Unhcr, António Guterres, l’agenzia sta già inviando aiuti umanitari nei distretti di Mardan e Swabi, nella Nwfp, e realizzando due nuovi centri di accoglienza, mentre altri due sono previsti per i nuovi sfollati lungo le principali strade vicine alla zona di conflitto. Solo negli ultimi 5 giorni l’Unhcr ha registrato più di 50.000 profughi e il ministro del governo provinciale della Nwfp, Mian Iftikhar Hussain, ha annunciato: «Crediamo che più 500.000 persone potrebbero essere sfollate dalla zona di Swat".

L’80% dei profughi non è istallato nei campi e la situazione umanitaria potrebbe aggravarsi perché i profughi, che vengono da aree tribali, per motivi culturali si ammucchiano nelle già anguste case di parenti che vivono ad Islamabad e Peshawar, creando una situazione sociale ed igienico-sanitaria esplosiva in queste due metropoli.

Così, mentre a Washington si discute di geopolitica e ad Islamabad si tenta di arginare la rivolta talebano-tribale, uno dei più noti e coraggiosi difensori dei diritti umani in Pakistan, Asma Jahangir, dice disperato: «In una situazione di questo tipo, il governo deve fare di più per proteggere i non belligeranti. Decine di migliaia di persone sono già diventate profughi». Sullo sfondo di tutto si stagliano i lucenti missili nucleari pakistani, che qualcuno ha permesso di costruire ad un Paese “amico” che vive da sempre sull’orlo del vulcano più attivo dell’integralismo islamico.

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