[19/05/2009] Comunicati

L’Europa della ricerca

ROMA. Nell’anno 2000 l’Unione europea si è data un ambizioso obiettivo, da centrare entro il 2010: diventare la regione leader al mondo della società e dell’economia della conoscenza. Per fare questo aveva individuato uno strumento qualitativo, molto caro al nostro Antonio Ruberti, che è stato commissario europeo: integrare il sistema scientifico europeo, creando lo “spazio europeo della ricerca”.

Due anni dopo Lisbona, nel 2002 a Barcellona, i paesi membri dell’Unione avevano definito anche gli strumenti quantitativi per realizzare l’ambizioso obiettivo di Lisbona: aumentare progressivamente gli investimenti in ricerca scientifica e tecnologica per raggiungere, entro il 2010, un’intensità di ricerca pari al 3% del prodotto interno lordo dell’Unione. Di cui l’1% di investimenti pubblici e il 2% di investimenti delle imprese.

Ora la data di Lisbona e di Barcellona, il 2010, sta per arrivare. E gli obiettivi indicati saranno raggiunti?

È anche per rispondere a questa domanda che l’Unione europea ha appena pubblicato un esteso rapporto, A more research-intensive and integrated European Research Area. Science, Technology and Competitiveness. Key figures report 2008/2009.

Tutti i dati del rapporto sembrano confermare che gli obiettivi di Lisbona e di Barcellona non verranno raggiunti. Malgrado la recente crisi, l’economia della conoscenza si sta affermando sempre più sul pianeta. Siamo passati, in questi ultimi dieci anni, da un mondo della ricerca scientifica essenzialmente bipolare (centrato su Europa e Usa, con in più il Giappone), a un mondo multipolare della ricerca, dove paesi come la Cina, l’India, la Corea del Sud, il Brasile, Taiwan e altri ancora stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante.

In questi anni l’intensità di ricerca nel mondo è aumentata, superando il 2,1% del Pil globale. In Europa invece, da dieci anni la spesa relativa in ricerca è stabile, intorno all’1,8%. Non solo non è cresciuta, come ci si era ripromessi a Barcellona. Ma ormai – forse per la prima volta negli ultimi cinque secoli, l’Europa investe in ricerca meno della media mondiale. Un campanello d’allarme.

Gli stati sono relativamente lontani dall’obiettivo di Barcellona: una spesa reale intorno allo 0,63% in ricerca (a fronte dell’obiettivo dell’1% del Pil). Ma sono soprattutto le imprese europee a investire poco in ricerca: l’1%, la metà esatta dell’obiettivo del 2%). Il motivo è che in Europa ci sono meno imprese che producono beni ad alta densità di conoscenza aggiunta rispetto agli Stati Uniti, al Giappone, ma rispetto anche ad alcune economie emergenti.

Anche i dati qualitativi non sembrano confortanti. C’è una grande frammentazione nell’Europa della scienza e della tecnologia – ci sono vocazioni molto differenziate tra i vari paesi – e siamo ancora lontani dall’aver realizzato uno “spazio europeo della ricerca”.
Tutto questo ha conseguenze negative. Sarà più difficile, per esempio, cambiare il paradigma energetico e passare da un’economia che brucia combustibili fossili a un’economia che punta sul risparmio energetico e sulle fonti rinnovabili.

Tuttavia l’Europa della ricerca non sta male così come l’abbiamo dipinta. Non solo può contare su 1.300.000 ricercatori, quasi quanto gli Stati Uniti, più della Cina (che vanta ormai 1.200.000 ricercatori) e quasi il doppio rispetto al Giappone. Ma i ricercatori europei lavorano bene. Detto in cifre: l’Europa conta sul 22,5% dei ricercatori mondiali; investe in ricerca risorse pari al 24,4% del totale mondiale; ma produce il 30,9% dei brevetti e il 37,6% delle pubblicazioni scientifiche.
Insomma, l’Europa produce ancora ricerca di grande qualità. E, inoltre, resta il continente del welfare state. Può ripartire da qui, da queste due caratteristiche, per diventare l’area leader del mondo di una nuova società, più giusta e democratica, della conoscenza.

Torna all'archivio