[26/05/2009] Aria

Parigi: 11 ong pongono al Mef l´ultimatum climatico

LIVORNO. A Copenaghen si chiude oggi il World business summit con la firma di un appello delle multinazionali in cui si chiede i leader politici che a dicembre s’incontreranno nella città danese per il negoziato post Kyoto, di «concordare su un ambizioso ed efficace trattato climatico» perché il «cambiamento climatico è una realtà. E, molto, semplicemente, non possiamo continuare a consumare le risorse come facciamo adesso». Speriamo che il pragmatismo delle grandi imprese riesca a contagiare intanto anche i ministri dei principali paesi industrializzati impegnati a Parigi nel secondo appuntamento del forum dei ministri economici, Mef, su clima ed energia voluto dall´amministrazione Obama per fare il punto su possibili politiche ambientali comuni, prima del G8 a L´Aquila.

Si dichiara «soddisfatta» il ministro dell´Ambiente Stefania Prestigiacomo, per i «contributi costruttivi» giunti dalla prima delle due giornate del Major economies forum (Mef) su clima ed energia, perché è stata manifestata la «volontà di riflettere e procedere su politiche ambientali comuni», pur nella diversità di posizioni fra i rappresentanti delle economie più sviluppate e quelle dei paesi emergenti.
Per sollecitare una forte presa di posizione da parte dei governi presenti al forum, undici Ong hanno lanciato un appello, “l’ultimatum climatico”, indirizzato ad Nicolas Sarkozy per indurlo a prendere la leadership e concretizzare decisioni per iniziative contro il cambiamento climatico.

«I paesi industrializzati hanno la responsabilità morale, legale ed economica di condurre la lotta contro il global warming» sta scritto nel documento e le Ong chiedono al presidente francese «di prendere le redini di questa lotta, che è senza dubbio la sfida di questo secolo».
Karine Gavand, responsabile della campagna clima di Greenpeace Francia (che è una delle undici organizzazioni firmatarie dell’appello), insiste sulle sfide che saranno al centro della conferenza di Copenhagen, di dicembre, per strappare un reale impegno. «Ciò che si teme – spiega - è di ottenere un accordo che non sia né cogente né all´altezza della sfida e, d´altra parte, di non ottenere un forte impegno da parte degli Stati Uniti, che hanno un ruolo fondamentale in questa sfida».

Il ruolo degli Stati Uniti sarà determinante, infatti, sia come parte in causa nel contributo alle emissioni responsabili dei cambiamenti climatici, ma anche per un effetto trascinamento che potranno avere «su numerosi paesi che aspettano di conoscere la posizione americana, come il Canada, il Giappone, l´Australia o la Nuova Zelanda».

Se l´obiettivo resta quello fissato dall´amministrazione Obama (una stabilizzazione delle emissioni rispetto ai valori del 1990, cioè una riduzione del 6% entro il 2020) per Grenpeace sarà un cattivo segnale per il resto del mondo, con il rischio di livellare i negoziati verso il basso. Mentre proprio dai principali paesi industrializzati deve venire l’esempio.

«Occorre che i grandi capi di stato e di governo diano un segnale forte e fissino un obiettivo di riduzione del 40% delle emissioni entro il 2020. La palla – sprona Karine Gavand -è nel campo dei paesi industrializzati».

Occorre anche prevedere politiche di sostegno per i paesi in via di sviluppo che «sono allo stesso tempo le prime vittime del riscaldamento climatico, i meno armati per farvi fronte e, ironia della sorte, i meno responsabili del fenomeno» sottolinea Karine Gavand, che spiega come al momento non sia invece previsto alcun meccanismo di finanziamento destinato ad aiutarli a proteggere le foreste o ridurre le loro emissioni, azioni per cui – secondo Greenpeace - servirebbero almeno 110 miliardi di euro l’anno da destinare ai paesi in via di sviluppo.
E le critiche verso la Cina, accusata di avere ormai livelli di emissioni paragonabili ai paesi di più vecchia industrializzazione, ma di non voler prendere impegni, servono spesso da pretesto agli occidentali, ritengono le associazioni, per impegnarsi di meno.

«Se si prendono le emissioni assolute per paese, la Cina è certamente ai primi posti su scala planetaria - ricorda Karine Gavand - Ma le emissioni procapite dei cinesi, rappresentano la metà di quelle degli abitanti dell´Unione europea ed un quarto di quella degli Stati Uniti».
E inoltre va tenuto presente che la situazione in Cina sta cambiando. «La Cina compie sforzi, ha già raddoppiato la sua capacità in materia di energie rinnovabili, costruisce un nuovo impianto eolico ogni due ore in media».
Infine la crisi economica planetaria non deve essere adottata come scusa per frenare gli impegni: «Sviluppare un’economia energetica basata sulla riduzione dei consumi, sull´indipendenza energetica e sullo sviluppo di energie rinnovabili può far crescere i posti di lavoro», quindi «la crisi economica deve essere utilizzata come un’ opportunità per rimettere in discussione il nostro modello di sviluppo e provare a costruire un modello più sobrio sul consumo di risorse di risorse e a basse emissioni di carbonio».

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