[05/06/2009] Comunicati

Il Giappone frena a Bonn. Gli Usa: non siamo pronti ma vogliamo l’accordo

LIVORNO. Ai Climate Change Talks in corso a Bonn sta facendo discutere la posizione del Giappone che sta portando avanti una opzione “politicamente inspiegabile” di aumento delle emissioni di gas serra che metterebbe in serio pericolo gli obiettivi di riduzione per il 2020. I funzionari dell’Onu non nascondono il loro fastidio per l’atteggiamento giapponese che trova sponda nella delegazione russa e il segretario dell’Unfccc, Yvo de Boer (nella foto), ha detto alla Reuters che spera che sia il Giappone che la Russia, i due Paesi industrializzati più importanti a non essersi ancora dati ancora obiettivi certi di riduzione per il 2020, lo facciano entro il 12 giugno, quando finirà la conferenza di Bonn, una delle ultime in preparazione di Copenhagen.

Il primo ministro giapponese Taro Aso ha detto che annuncerà entro metà giugno quale sarà la scelta tra le 6 opzioni proposte dal governo conservatore di Tokyo per ridurre le emissioni di gas serra entro il 2020, gli scenari proposti da una commissione consultiva di esperti vanno da un aumento delle emissioni del 4% rispetto ai livelli del 1990 fino ad un taglio del 25%.

Aso ha detto infatti che «la riduzione del 25% sarebbe proibitivamente costosa», e per de Boer questo significa che l’obiettivo giapponese dovrebbe essere «in qualche posto tra gli estremi». Il timore è che, esclusi i due dati limite, la scelta sia al ribasso.

«Penso che sarebbe politicamente inspiegabile se il Giappone non si desse un target di emissioni che non sia almeno superiore a quello attuale previsto dall’accordo di Kyoto» ha detto De Boer.
Nel 1997 il Giappone a Kyoto si era impegnato a tagliare le sue emissioni di almeno il 6%, dal 2008 al 2012, rispetto ai livelli del 1990. L’atteggiamento del Giappone è preoccupante perché si tratta del quinto più grande produttore di gas serra del mondo ed invece di calare le sue emissioni nel 2007 erano dell’8% sopra i livelli del 1990. Così, se passasse l’opzione meno 4%, che sembra la più gettonata a Kyoto, il taglio sarebbe lievissimo.

Il Giappone ribatte che la sua economia è più efficiente rispetto agli altri Paesi sviluppati, grazie alla scelta nucleare rafforzata dopo shock petrolifero degli anni ’70, ma non si capisce come un Paese “pulito” dal nucleare scarichi così tanta CO2 in atmosfera.

«Spero che il Giappone presenti i suoi numeri in questa sessione» ha detto de Boer e i Paesi riuniti a Bonn, guidati da Cina ed India, premono perché i Paesi ricchi accettino riduzioni del 40% delle emissioni entro il 2020, un dato stratosferico per i recalcitranti Giapponesi che si stanno inimicando soprattutto i Paesi più poveri e più a rischio per l’aumento del livello del mare, la siccità, le inondazioni e la perdita di biodiversità.
Da Bon probabilmente si uscirà con uno stallo, in attesa del 17 giugno, quando i Paesi sviluppati hanno promesso che diranno quali saranno i tagli medi che sono disposti a fare e de Boer ha detto che è troppo presto per dire se la scadenza sarà rispettata: «Non è un obbligo giuridico, ma la decisione su questi livelli deve essere concordata sa qui. Quindi se non lo sarà, questo termine non verrà raggiunto. Mancano ancora i dati di Giappone e Russia. Una volta che l’elenco sarà completato, la domanda è: possiamo raggiungere un accordo su un quadro di insieme e su singoli argomenti?».

I Paesi sviluppati a quanto pare non hanno nessuna intenzione di fornire a Bonn obiettivi collettivi e de Boer ribatte che fino ad ora gli impegni promessi non sono mediamente così incisivi e impegnativi come dovrebbero essere. Alle perplessità del segretario dell’Unfccc e dei Paesi in via di sviluppo dà ragione uno studio del Potsdam Institute for Climate Impact Research che stima che I tagli di emissioni di gas serra fino ad ora delineati dagli impegni dei Paesi sviluppati porterebbero nel t 2020 a riduzioni tra l’8,2 e il 14,9% rispetto ai livelli del 1990. Lontano, lontanissimo da quel che sarebbe necessario per frenare il cambiamento climatico.

Intanto la delegazione Usa manda a dire che forse non sarà pronta a dicembre per dare le cifre di un suo impegno definitivo per il post-Kyoto, ma che questo non dovrebbe bloccare l’accordo internazionale sul riscaldamento globale.

Il capo della delegazione statunitense Jonathan Pershing, ha spiegato che la legislazione Usa sul cambiamento climatico non potrà ancora essere completata per dicembre: «Lavoreremo come matti per arrivarci in tempo, e questo ci spingerà enormemente ad approvare la legge – ha spiegato Pershing all’Associated Press – Però questo non deve bloccare l’accordo. E’ possibile arrivare ad un accordo anche senza la legge».

La prima fase del lungo percorso legislativo è stata completa a maggio con l’approvazione della climate bill da parte della commissione del Congresso, oro tocca approvarla alla Camera dei Rappresentanti e alle varie commissioni del Senato. Il voto definitivo spetta al Senato e probabilmente non sarà possibile fino al 2010, dopo Copenaghen.

Gli Usa si presenteranno quindi nella capitale danese con la richiesta di n accordo parziale che tenga conto delle intenzioni di Obama e con gli obiettivi di riduzione delle emissioni da fissare in seguito, a legge approvata.

Il problema è che molti Paese hanno detto che non prenderanno nessun impegno fino a che non sapranno cosa vogliono fare Usa ed Ue. Pershing dice che intanto si potrebbe firmare a Copenaghen altri accordi importanti che non dipendono dagli obiettivi di riduzione delle emissioni, come il finanziamento ai Paesi poveri per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Gli Usa a Bonn premono anche per spostare l’attenzione sugli obiettivi a lungo termine invece che su quelli per il 2020, perché hanno bisogno di recuperare il ritardo accumulato in 8 anni di amministrazione anti.Kyoto di Bush.

La cosa non piace per nulla all’Ue che invece punta risolutamente su obiettivi certi per il 2020, che costringano gli attuali governanti ad intervenire subito: «Entro il 2050 saranno tutti morti» ha detto lugubremente efficace Artur Runge-Metzger della Commissione europea.

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