[05/06/2009] Energia

Il nucleare, l’emotività e l’ideologia

ROMA. E’ innegabile che l’uscita dell’Italia dal nucleare sia stata determinata dall’emotività indotta della catastrofe di Cernobyl. I quesiti referendari chiave, peraltro, erano diretti ad abolire le norme sulla localizzazione delle centrali nucleari e i contributi a Comuni e Regioni sedi di centrali nucleari, cosa che avrebbe reso impossibile trovare un Comune disposto a ospitare sul suo territorio un impianto nucleare o anche un deposito di scorie radioattive.

E’ il caso di ricordare anche, come a quell’epoca la DC e il PCI fossero decisamente contrari ai quesiti proposti dal Partito Radicale, dal Partito Liberale e dal Partito Socialista. La prima strategia adottata contro i referendum fu quella dello scioglimento anticipato delle camere per lo stallo che si era prodotto nei rapporti tra Dc e Psi: protagonista fu Ciriaco De Mita, che decise le elezioni anticipate per rompere la convergenza di quei mesi tra i partiti laici e in particolare tra Craxi e Pannella.
Dopo le elezioni anticipate, di fronte all’appuntamento referendario, Dc e Pci, inizialmente ostili ai quesiti, si schieravano a favore del «sì». Questo repentino cambio di rotta dei due maggiori partiti derivava dalle implicazioni politiche che poteva provocare una eventuale sconfitta dello schieramento del «no» imperniato sull’asse Dc e Pci, in contrapposizione ad uno schieramento laico-progressista formato da Radicali e Socialisti.

La rilettura di quel periodo dimostra che il risultato del referendum del 1987, oltre ad essere stato frutto dell’emotività fu soprattutto figlio dell’ideologia. E’ corretto quindi affermare che quella scelta fu emotiva e ideologica.
Quello che è meno evidente è come anche l’attuale rientro dell’Italia nel nucleare sia dovuto a un’altrettanta ondata emotiva ancorché ideologica, sapientemente pilotata da un Governo che altera i fatti e stimola le paure più ancestrali dei cittadini.
Di fatto, rispetto il 1987, la situazione si è ribaltata: gli emotivi di allora, ancorché mossi da una forte preoccupazione per le possibili conseguenze sanitarie e ambientali del fallout radioattivo, contestano il ritorno al nucleare su basi razionali e i sostenitori del nucleare implorano ora tale ritorno su basi emotive e ideologiche, quali la paura dell’aumento del costo del petrolio, l’inaffidabilità dei paesi produttori di gas naturale, la fatalità di uno sviluppo che ci porterà ad un consumo sempre maggiore di energia, l’inevitabilità che per salvaguardare il nostro pianeta e ridurre le emissioni di gas serra, si debba scegliere il male minore.

Per sostenere la necessità di realizzare in Italia una nuova filiera nucleare, molte sono le menzogne che vengono regolarmente diffuse e propagandate, al punto che anche molti esponenti del mondo ambientalista finiscono per crederci:
Ecco le bugie e le paure che vengono più frequentemente diffuse.
LE BUGIE

L’energia elettrica in Italia è più cara perché in nostro mix di produzione è troppo sbilanciato verso il gas naturale e non abbiamo centrali atomiche.

Ciò è assolutamente falso. L’alto costo dell’energia elettrica italiana è dovuta a quattro principali fattori:
1. il sistema di formazione del prezzo dell’elettricità nella borsa elettrica, detto anche “sistema del prezzo marginale”. Con questo sistema l’energia elettrica offerta non viene remunerata in base al singolo prezzo richiesto da ogni produttore, ma in base al prezzo più alto offerto tra i produttori, con il risultato di consentire loro grossi extra-profitti e un prezzo finale per i consumatori più alto anche del 10%.

2. I cosiddetti “oneri generali di sistema”, che pesano per un altro 10% sulle bollette elettriche e che servono a pagare lo smantellamento delle 4 vecchie centrali nucleari italiane (212 milioni di euro nel 2008), a ripagare le imprese elettriche e l’Enel in particolare per gli investimenti fatti prima della liberalizzazione (680 milioni di euro nel 2007), e soprattutto per incentivare le fonti assimilate alle rinnovabili, ossia la produzione di elettricità con gli scarti delle raffinerie di petrolio, con i rifiuti, con la cogenerazione a gas naturale. In particolare, queste fonti non rinnovabili, nel 2008 hanno rappresentato l’83,3% dei ritiri obbligati CIP6 e il costo per i consumatori è stato di 1.720 milioni di Euro.

3. L’inadeguatezza della rete elettrica nazionale sia in alta, che media e bassa tensione. La rete di trasporto e di distribuzione è stata progettata negli anni ‘60 del secolo scorso, gli anni del monopolio, e realizzata principalmente come monodirezionale e quindi passiva. Le odierne esigenze sono invece di sviluppare reti di trasmissione attive, cioè in grado di accogliere e smistare efficientemente anche i flussi provenienti dai tanti piccoli e medi impianti (la cosiddetta generazione distribuita). Nel Sud Italia e nelle Isole poi, la rete di trasmissione è particolarmente insufficiente e congestionata, con il risultato che l’energia elettrica raggiunge prezzi molto elevati con punte, nella Borsa Elettrica, di 180 €/MWh contro medie di 70 €/MWh del resto dell’Italia (vedi GME). Possiamo sostenere quindi che un´altra buona fetta della tariffa elettrica è imputabile alla inadeguatezza della rete elettrica italiana.

4. Infine, quasi il 20% della bolletta elettrica se ne va in tasse e IVA. Secondo una indagine svolta da Confartigianato la tassazione dell’energia in Italia risulta superiore del 30% rispetto alla media europea. Certamente la tassazione più consistente riguarda i prodotti petroliferi, ma anche sull’energia elettrica lo Stato non scherza. L’impatto di questo sistema d’imposizione è particolarmente pesante sull’industria: escludendo l’iva, un’impresa che consuma 160 megawattora all’anno, paga il 25,4% di imposte sui suoi consumi elettrici, contro una media del 9,5% in Europa.

Mettendo assieme questi elementi scopriamo che la modalità con cui si produce la corrente elettrica non c’entra proprio nulla e che l’alto costo dell’elettricità in Italia è dovuto esclusivamente ai privilegi di cui ancora godono i produttori di elettricità e i petrolieri, all’inefficienza del sistema elettrico italiano e alla voracità dello Stato.

In Francia l’energia elettrica costa meno perché ha il nucleare.

E’ il cavallo di battaglia dei fautori del nucleare, purtroppo incapaci di comprendere la storia e l’intimo rapporto che ha legato da sempre il nucleare civile con il nucleare militare. Di fatto le condizioni che hanno portato la Francia a diventare una potenza nucleare sono frutto dell’azione politica del generale De Gaulle per creare, in piena guerra fredda, un polo nucleare europeo a guida francese.

De Gaulle tentò prima di pervenire ad un accordo con gli USA e la GB per istituire un “direttorio franco-anglo-americano” alla guida dell’Alleanza Atlantica, ma al "no" di Londra e Washington, uscì dalla NATO ed elaborò un disegno politico in cui l’Europa si poneva come “terza forza” fra USA ed URSS e in questo quadro, doveva essere accentuata la leadership francese. Necessità e condizione preliminare per tale politica era che la Francia si dotasse di una capacità militare nucleare (“La force de frappe”), per cui una delle prime decisioni del generale fu di accelerare i piani per l’atomica francese che esplose così nel 1960 nel Sahara algerino.

Il nucleare civile francese è nato quindi in simbiosi con il nucleare militare, per ripartire gli enormi costi per produrre l’uranio e soprattutto per arricchirlo al cosiddetto “weapon grade”. Lo sforzo civile e militare francese è stato imponente e la maggior parte dei costi, dalla Ricerca e Sviluppo fino al trattamento del combustibile esausto non sono mai entrati nel costo dei kWh che i cittadini pagano in tariffa, ma sono nascosti nelle tasse che pure i francesi pagano. Non dimentichiamo che EdF, la società elettrica che gestisce le centrali nucleari è statale e che anche gli arsenali militari e gli impianti di arricchimento e di ritrattamento dell’uranio sono statali.

L’esperienza francese è irripetibile, soprattutto in un mercato liberalizzato dove i costi devono essere trasparenti e le attività industriali devono competere sul mercato. D’altra parte basta leggersi i rapporti della Corte dei Conti per rendersi conto delle gravi omissioni e dell’assoluta mancanza di trasparenza riscontrata nel settore nucleare e in particolare nel “decommissioning”, stigmatizzati regolarmente dai giudici francesi nei loro rapporti periodici (pdf).
Le centrali nucleari non emettono CO2

Altra leggenda metropolitana alla quale peraltro sembrano crederci anche alcuni ambientalisti. La produzione dell’uranio, è una attività mineraria e industriale piuttosto lunga e complessa che comporta tutta una serie di lavorazioni che richiedono l’utilizzo di combustibili fossili, di elettricità, di enormi quantità di acqua, di acido solforico e infine di fluoro, gas altamente velenoso e che provoca un effetto serra migliaia di volte più potente della CO2.

Solo le attività nel reattore non emettono CO2. Ma poi comincia la lunga e tormentata fase del ritrattamento del combustibile esausto, che dura decine e decine di anni con costi enormi in termini di uso di combustibili fossili ed elettricità per trasportarlo da un posto all’altro, riprocessarlo, condizionarlo, confinarlo in depositi provvisori, dato che in tutto il mondo non esiste ancora un deposito definitivo.

Ma vediamo alcuni numeri prendendo come riferimento un EPR da 1.600 MW, come quelli che si vorrebbero costruire in Italia. Per produrre 12.000 GWh (12 TWh o 12 mld di kWh) all’anno occorre partire da qualcosa come 8.000.000 di tonnellate di roccia che vanno prima estratte, macinate, poi diluite con 1.400.000 metri cubi di acqua e 22.000 tonnellate di acido solforico. Alla fine si ottengono 350 tonnellate di Yellowcake, un ossido che contiene lo 0,7% di uranio fissile, più l’equivalente di una piramide di Cheope di scarti.
Poi quest’uranio va arricchito per incrementare la parte fissile, cioè l’Uranio 235, almeno al 3,5%. L’arricchimento avviene per centrifugazione trasformando l’uranio in gas, l’esafluoruro di uranio. Per fare questo servono 370 tonnellate di fluoro, gas molto leggero, altamente volatile e che alla fine del processo è altamente radioattivo, impossibile da smaltire e che comporta una gestione molto onerosa.
Finalmente si ottengono 40 tonnellate di uranio combustibile in forma di Bi-Ossido di Uranio, oltre che 250 tonnellate di uranio impoverito, che poi tanto povero non è, dato che contiene ancora lo 0,3% di uranio fissile, quindi radioattivo.

In conclusione, per far funzionare un EPR per un anno si consumano 190.000 tep con l’immissione in atmosfera di 670.000 tonnellate di CO2. Poca cosa, dato che ciò corrisponde a soli 56 grammi di CO2/kWh. Se però consideriamo che la costruzione della centrale è responsabile dell’emissione di altri 12 grammi di CO2/kWh e che la gestione delle scorie comporta un “debito” stimato tra i 30 e i 65 grammi di CO2/kWh arriviamo a una cifra che oscilla tra i 96 e i 134 grammi di CO2/kWh, circa un terzo delle emissioni di un ciclo combinato a gas (eedi “Secure energy, civil nuclear power and global warming” Oxford Research Group, 2007).

Ma la pacchia dura fino a che dura la disponibilità di minerale con concentrazioni di uranio piuttosto elevate. Man mano che la purezza del minerale di uranio diminuirà, ci vorrà più energia fossile per estrarre l’uranio e le emissioni di CO2 arriveranno inevitabilmente a eguagliare le emissioni di una centrale a gas.

LE PAURE
La sicurezza dell’approvvigionamento energetico.

Questa è una delle più forti pressioni ideologiche e mediatiche operate per convincere gli italiani della necessità dell’energia nucleare: il petrolio proviene in prevalenza dai paesi arabi, il gas dalla Russia e dalla Libia, tutti paesi politicamente inaffidabili, per non parlare del Venezuela di Chavez e della Bolivia di Morales che nazionalizzano le industrie del petrolio e del gas.

Ebbene, pochi sanno che su un fabbisogno mondiale annuo di circa 70.000 tonnellate di uranio, solo 20.000 tonnellate, pari al 28%, provengono da paesi cosiddetti stabili, quali Australia, Canada, USA; altre 20.000 tonnellate arrivano da Kazakhstan, Russia, Niger, Namibia e Uzbekistan e le altre 30.000 tonnellate necessarie a equilibrare il fabbisogno dei reattori nucleari provengono dagli arsenali militari in smantellamento, per lo più ex Sovietici.

La caccia all’uranio è ormai uno degli sport preferiti dei Capi di Stato. Il tema centrale della tournée di Nicolas Sarkozy in Africa nel marzo di quest’anno è stato l’uranio. Accompagnato dal presidente di Areva, la più grande multinazionale dell’energia atomica, Sarkozy si è assicurato i diritti di esplorazione e di sfruttamento di tutti i giacimenti di uranio della Repubblica del Congo. Poi è volato a Niamey, in Niger, dove si è assicurato, battendo la concorrenza dei cinesi, i diritti di sfruttamento sul gigantesco giacimento di Imouraren, destinato a diventare una delle maggiori miniere di uranio del mondo. In cambio Sarkozy ha promesso che, oltre che investire 1,2 miliardi di dollari nel paese, avrebbe smesso di fomentare la rivolta dei Tuareg armando il Movimento dei Nigerini per la Giustizia (MNJ) in lotta contro il governo centrale per via dell’espropriazione degli immensi territori ricchi di uranio.

Se non rientriamo nel nucleare saremo “tagliati fuori” dallo sviluppo tecnologico.

E’ la grande preoccupazione dell’industria italiana dopo la sigla del memorandum tra Enel e EdF per l’avvio del nucleare in Italia. L’allarme è stato lanciato da Giuseppe Zampini, amministratore delegato di Ansaldo Energia, intervenendo a un convegno su “Innovazione energetica e rilancio del nucleare”, organizzato dall’Oice, associazione delle organizzazioni di ingegneria, il 18 marzo a Roma.
Zampini ha spiegato infatti, che l’impostazione di fondo dell’intesa Enel-EdF prevede la scelta della tecnologia francese EPR con il rischio di essere colonizzati in una situazione in cui l’80% delle attività ingegneristiche per la realizzazione delle nuove centrali sarebbero in mano a società e aziende transalpine, incluse le attività di manutenzione.
Ha affermato Zampini: “se non c’è una ricaduta per le nostre aziende in termini di partecipazione tecnologica, perché fare il nucleare?”

Già, perché fare il nucleare? Non certo per produrre energia elettrica a costi minori: tutti gli studi internazionali seri riferiscono ormai che il costo del kWh nucleare dei nuovi impianti sarà inevitabilmente più elevato del kWh prodotto con il gas o il carbone; nessuna banca è disponibile a finanziare nuovi impianti senza garanzie dallo Stato, nessuna società è disponibile ad assicurare il rischio di incidente, i costi per il trattamento delle scorie nucleari sono sconosciuti e soprattutto non si sa ancora dove metterle.
L’unica solida ragione per avventurarsi nella costruzione di un sistema nucleare in Italia può essere quello di dare lavoro a poche grandi imprese. Questo perché una filiera nucleare non è cosa da piccole e medie imprese: è un affare per giganti.

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una serie di fusioni e concentrazioni societarie che non hanno precedenti nella storia industriale del pianeta. Quando le grandi imprese manifatturiere si fondono e si concentrano vuol dire che sono messe molto male. Basta guardare quello che sta succedendo nel settore automobilistico, dove siamo in presenza di una notevole sovracapacità produttiva e la strategia dei grandi gruppi è stata quella di scatenare una guerra totale per contendersi il mercato mondiale e poter così sopravvivere razionalizzando la produzione di automobili e accaparrarsi i mercati emergenti.
Anche il settore nucleare è nella stessa condizione di sovracapacità produttiva, anche se la problematica non occupa le prime pagine dei giornali come la vicenda Fiat-Opel.

I costruttori di impianti atomici sono alla ricerca disperata di nuove commesse, al punto che, per riuscire a vendere centrali nucleari nei paesi in via di sviluppo, si muovono i Capi di Stato. Perfino Barak Obama, propugnatore del new deal verde, ha appena approvato un accordo per vendere centrali atomiche agli Emirati Arabi Uniti ("Il manifesto”, 24 maggio 2009) che frutterà almeno 40 miliardi di dollari a vantaggio delle multinazionali americane dell’atomo, peraltro in partnership con i colossi giapponesi. Altri accordi con l’Arabia Saudita, il Baharain, l’Egitto, l’Algeria, il Marocco, sono in corso di negoziazione. Siamo in piena campagna promozionale, cui partecipano anche Russia e Cina, oltre che la solita Francia, per vendere impianti “chiavi in mano” non importa dove e non importa a chi, pur di rilanciare l’industria nucleare in crisi e legare quei Paesi alle tecnologie nucleari per i secoli a venire, accelerando di fatto la possibilità della proliferazione delle armi atomiche.
Siamo accerchiati da centrali nucleari: se succede un incidente in Francia o in Svizzera, ne saremo coinvolti anche noi.

Questo è vero. Oltretutto il parco francese è piuttosto vecchiotto e gli incidenti minori con fuoriuscite di materiale radioattivo sono ormai all’ordine del giorno. Ma questo non giustifica una politica masochista del “mal comune mezzo gaudio”. Cioè facciamo anche noi le centrali nucleari, così se c’è un incidente almeno è colpa nostra.
Anche perché dopo gli ultimi ripetuti incidenti all’impianto di Tricastin e dopo lo scandalo, denunciato da France-3, dei 300 milioni di tonnellate di rifiuti radioattivi sparpagliati metodicamente e discretamente nelle campagne, in prossimità di villaggi, usati per costruire strade, case, parcheggi, parchi giochi per bambini, sarà difficile far digerire ai francesi la costruzione di nuove centrali nucleari.
D’altra parte già nel giugno del 2008 un gruppo di dipendenti dell’EdF aveva diffuso un appello per ridurre nell’arco di 5 anni il consumo di elettricità nucleare dall’80% al 60% chiudendo i reattori più vecchi, più costosi e più inquinanti e sostituendoli con una produzione elettrica decentralizzata, adattata alle risorse locali quali la cogenerazione alimentata da metano, biogas, biomasse, impianti solari, eolici, ecc.
Le centrali nucleari sono inutili

La verità è che l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili sono in forte competizione con il nucleare e i sostenitori del nucleare mentono spudoratamente quando affermano che non c’è concorrenza tra nucleare ed efficienza energetica. Questa divergenza è destinata ad aumentare per due ordini di motivi:
· tutte le tecnologie dell’energia distribuita, comprese le tecnologie del risparmio energetico sono destinate inesorabilmente a diventare sempre meno care per via dei grandi volumi di produzione e dei miglioramenti continui che consentono di sfornare sempre più nuovi prodotti “più risparmiosi” dei precedenti. Questo non succede per gli impianti centralizzati e soprattutto per gli impianti nucleari che storicamente tendono a costare sempre di più, in contrasto con le cosiddette “curve di apprendimento delle tecnologie”. D’altra parte, dalla progettazione di un componente nucleare fino alla sua realizzazione passano talmente tanti anni che, anche quando si inventano nuovi prodotti e nuove tecnologie, non è possibile utilizzarli immediatamente e bisogna aspettare che entri in produzione una nuova filiera.
· il mercato sta cominciando a riconoscere i benefici ottenibili con le tecnologie distribuite, sia in termini di profitti, sia per l’elevata ricaduta che questo comporta sui livelli occupazionali a livello locale. Il risparmio energetico, la produzione distribuita di elettricità e le fonti rinnovabili in particolare, cominciano a mostrare il loro potere dirompente per sfondare barriere che fino a poco fa sembravano impenetrabili, riducendo drasticamente i costi e migliorando le prestazioni. Solo in impianti di cogenerazione, in Italia se ne stanno installando centinaia all’anno per una potenza di 4.000 MW/anno. Stanno peraltro emergendo nuove classi di tecnologie, alcune ancora immature come il solare termodinamico o le celle a combustibile alimentate a idrogeno, che sono destinate a rivoluzionare il mercato dei trasporti.
Le previsioni di Terna sull’evoluzione della domanda elettrica in Italia, aggiornate nel Novembre 2008, indicano, secondo uno scenario cosiddetto “di sviluppo”, ovvero senza l’attuazione degli obiettivi di risparmio energetico, in 415 TWh il fabbisogno di elettricità e in 74 GW il fabbisogno di potenza al 2018.

Ora, senza entrare nel dettaglio di quanto inciderà il tracollo economico in atto sui consumi finali e spostando in prima approssimazione al 2020 il fabbisogno indicato da Terna al 2018, gli obiettivi del “pacchetto 20-20-20” comportano che al 2020 ci sia una riduzione di consumi finali di circa 80 TWh e che altri 70 TWh vengano prodotti con fonti rinnovabili. Il fabbisogno integrativo con fonti convenzionali, si riduce così a 265 TWh di energia elettrica e poco meno di 60 GW di potenza termoelettrica convenzionale, inferiore al 30% al fabbisogno elettrico del 2009 (350 TWh) e del 22% alla potenza termoelettrica lorda installata attualmente (73,3 GW).

A questo punto qualcuno ci deve spiegare dove è lo spazio per costruire 4-5 centrali nucleari che dovrebbero produrre 60 TWh di elettricità all’anno, come chiede Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel, quando già al 2020, attuando il “pacchetto 20-20-20” rischiamo un surplus che oscilla tra il 20% e il 30%.
Quello che è preoccupante del nostro Governo, è che invece di rafforzare decisamente il sostegno all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, stia stipulando patti faustiani con le lobby industriali e finanziarie, promettendo contratti miliardari per realizzare una filiera nucleare, estremamente rischiosa e costosa, garantita dallo Stato, quindi con i soldi dei contribuenti. Di fatto il Governo rallenta lo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, le vere alternative pulite, per far spazio agli interessi delle lobby nucleari.
In ultima analisi, questi fondi verranno sottratti al dispiegamento di uno sviluppo duraturo e distribuito sul territorio, che solo l’efficienza energetica e le vere fonti rinnovabili possono produrre.

Fonte: www.qualenergia.it

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