[26/06/2009] Comunicati

Non possiamo aspettare oltre: dobbiamo tendere verso la scienza della sostenibilità

ROMA. Il nuovo secolo che stiamo vivendo e l’accavallarsi della tante crisi, apparentemente settoriali (economico-finanziaria, climatica, energetica, idrica, ambientale, agro-alimentare, ecc.) ma che sono, invece, tra di loro strettamente legate come diversi tasselli che compongono un unico mosaico, dimostrano ancora di più l’estrema urgenza di affrontare l’insieme dei problemi incombenti, con un’ottica legata all’equazione un essere umano = una “quota di natura” . Questo ovviamente nel pieno rispetto del principio di equità che è uno dei principi fondamentali della sostenibilità.

Ormai diventa sempre più difficile eludere questa impostazione, a maggior ragione tenendo conto della continua crescita della popolazione umana (dagli 1,6 miliardi degli inizi del Novecento agli attuali 6,8 miliardi, giungeremo agli oltre 9 miliardi nel 2050), dell’ormai intollerabile differenza esistente tra chi è sempre più ricco e chi è sempre più povero (le anticipazioni rese note in questi giorni dell’ultimo rapporto FAO 2009 sullo stato della denutrizione del mondo, ci dicono che abbiamo raggiunto la cifra di un miliardo di affamati sul pianeta), dell’insostenibile e continua devastazione ambientale che vede tutti i sistemi naturali in chiara sofferenza nelle loro capacità rigenerative (utilizziamo più risorse di quanto la natura possa rigenerarle) e nelle loro capacità ricettive (immettiamo una quantità di rifiuti solidi, liquidi e gassosi che la natura ha reali difficoltà a “metabolizzare”).

Per tutti questi motivi il lavoro negoziale internazionale che dovrebbe giungere ad un patto globale sui cambiamenti climatici per la 15° Conferenza delle parti della convenzione quadro sui cambiamenti climatici che avrà luogo a Copenhagen nel prossimo dicembre, assume un ruolo di straordinaria importanza per comprendere se saremo in grado veramente di cambiare rotta.

La sfida che abbiamo di fronte è epocale: sia nel 1990 sia nel 2000 le emissioni globali sono state di circa 40 Gt (miliardi di tonnellate) di CO2 equivalenti all’anno, mentre oggi si aggirano oltre le 50 Gt di CO2 equivalenti. Dimezzare il livello di emissioni per il 2050 rispetto al 1990 comporta quindi la riduzione a 20 Gt di CO2 equivalenti all’anno.

Le emissioni pro capite a livello mondiale (tenendo ovviamente conto della crescita della popolazione) sono state, fra il 1990 ed il 2000, pari a 7-7,5 tonnellate all’anno, e oggi sono vicine a 8 tonnellate all’anno. Verso la metà del secolo quando la popolazione sarà probabilmente di 9 miliardi l’obiettivo che dovrebbe essere stabilito per il 2050 corrisponderebbe a circa 2 tonnellate pro capite all’anno (la “quota di natura” di emissioni pro capite).
Appare evidente che la riduzione delle emissioni da 7-8 a 2 tonnellate pro capite all’anno rappresenta una sfida veramente epocale.

Attualmente 7-8 tonnellate pro capite all’anno rappresentano la media globale, ma gli scostamenti che si verificano nei vari paesi sono notevoli. Negli Usa, in Canada e in Australia le emissioni pro capite sono circa 20 tonnellate all’anno; in Europa e in Giappone attorno a 10-12 tonnellate all’anno; in Cina più di 5 tonnellate all’anno; in India sotto le 2 tonnellate all’anno e nella maggior parte dell’Africa sub-sahariana sotto la tonnellata all’anno.
Il patto globale che si dovrebbe sancire a Copenhagen, come ricorda il noto economista Nicholas Stern, nel suo bel volume “Un piano per salvare il pianeta” (edizioni Feltrinelli, uscito da pochi mesi) ha come obiettivi principali:

- Accordo tra paesi sviluppati per partire immediatamente con l’obiettivo vincolante del 20-40% di una riduzione delle emissioni entro il 2020 e l’impegno a una riduzione dell’80% entro il 2050;
- In questo arco di tempo i paesi sviluppati devono: dimostrare in modo chiaro e convincente che una crescita economica a basso carbonio è possibile e conveniente ; condividere le necessarie tecnologie; mettere in funzione la commercializzazione delle emissioni e altri sistemi di finanziamento;
- Impegnare i paesi in via di sviluppo, sulla base dei risultati ottenuti dai paesi sviluppati, a partire con gli obiettivi entro il 2020:
- Approntare al più presto nei paesi in via di sviluppo piani credibili per arrivare nel 2050 a un livello di emissioni di 2 tonnellate all’anno pro capite, tenendo conto di raggiungere il picco delle emissioni prima del 2030, per i paesi in via di rapido sviluppo, il picco deve avvenire prima del 2020.
Se non manteniamo la concentrazione di CO2 equivalente al di sotto delle 500 ppm i rischi, come ci viene indicato dalla comunità scientifica, potranno essere altissimi.

Se ci manteniamo a questo livello la probabilità di un aumento di temperatura maggiore di 2°C sarà del 95% ma quella di un aumento maggiore di 5°C sarà solo del 3%. Dato che molti scienziati sostengono che oltre i 2°C di aumento si entra nella zona pericolosa, anche 500 ppm potrebbero sembrare troppe e, in effetti, per avere un 50% di probabilità di restare entro i 2°C di aumento non dovremmo superare le 400 ppm.
Il problema è che il nostro punto di partenza sono le attuali 430 ppm di CO2 equivalenti a cui aggiungiamo con le nostre emissioni 2,5 ppm ogni anno, un tasso che tende anch’esso ad aumentare.

Nel famoso Rapporto Stern del 2006 (vedasi http://www.hm-treasury.gov.uk/sternreview_index.htm) la valutazione dei costi è stata fatta assumendo come obiettivo 550 ppp di CO2 equivalenti ma ora gli scienziati ritengono questo livello troppo rischioso. 500 ppm potrebbe essere un tetto più accettabile, tenendo sempre aperta la possibilità di ritoccarlo, probabilmente al ribasso, in corso d’opera.

Jim Hansen ed altri scienziati ritengono che non si possano superare le 350 ppm di CO2 equivalenti. Questo sarebbe infatti un livello molto vicino a quello che l’umanità ha incontrato nel corso della sua evoluzione. Il processo dell’evoluzione e i modi in cui si sono evolute la geografia fisica e quella umana hanno dato origine, sia per l’uomo che per le altre specie, ad abitudini di vita e insediamenti fortemente condizionati dal clima.

Scrive Nicholas Stern in questo suo ultimo libro:”Queste considerazioni scientifiche sono di notevole efficacia nel delineare le effettive proporzioni dei rischi cui stiamo andando incontro e mi hanno convinto che le 500 ppm di CO2 equivalenti, con l’alta probabilità (96%) di superare i 2°C di differenza rispetto alla situazione pre industriale e con il 44% di probabilità di superare i 3°C, non rappresenterebbero un ambiente piacevole dove abitare.
Per abbassare la soglia a 400 ppm di CO2 equivalente (350 ppm di sola CO2) però, si devono fare i conti con il fatto che oggi siamo già a 430 ppm di CO2 equivalenti (circa 380 ppm di sola CO2) e che le nostre emissioni aggiungono 2,5 ppm ogni anno che passa. Allo stato attuale dobbiamo riconoscere che dovrà passare molto tempo prima che si possa invertire il segno di questa aggiunta continua e farlo diventare negativo. Entro dieci anni saremo sicuramente a 450 ppm di CO2”.
Non possiamo aspettare oltre.

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