[08/07/2009] Energia

Greenpeace all’assalto del carbone che piace al G8. Blitz in 4 centrali italiane

LIVORNO. Mentre tutti avevano gli occhi puntati sulle “zone rosse” e sullo sfiancato e sfilacciato movimento “no-global”, Greenpeace stava preparando una clamorosa sorpresa: stamattina alle 7,30 oltre 100 attivisti provenienti da 15 Paesi del mondo, passati tranquillamente sotto il naso del reclamizzato e potentissimo servizio di controllo del G8, hanno occupato quattro centrali elettriche a carbone italiane e da quelle ciminiere non proprio pulite hanno chiesto ai Capi di Stato riuniti a L’Aquila «di assumere un ruolo di leadership contro i cambiamenti climatici».

Le clamorose azioni seguono la presentazione del documento “Creare posti di lavoro proteggendo il clima”, un’anticipazione di un rapporto mondiale previsto per il prossimo autunno, che dimostra come «con il passaggio alle fonti rinnovabili e all’efficienza energetica, e abbandonando il carbone, si può creare più di 1 milione di nuovi posti di lavoro entro il 2020, solo nelle nazioni del G8»..

I 4 blitz di Greenpeace hanno occupato i nastri di trasporto e scalato le ciminiere e le gru delle centrali a carbone di Brindisi, di Fusina a Marghera (Venezia), Vado Ligure (Savona) e l’ormai contestatissima area di Porto Tolle, una centrale che il governo italiano vuole riconvertire a carbone, a Porto Tolle, nel bel mezzo del parco regionale del Delta del Po.

Lo stile è stato ancora una volta quello decisissimo e non violento di Greenpeace, anche se a Brindisi c’è stato subito qualche problema perché i responsabili della centrale hanno più volte riacceso il nastro trasportatore occupato dagli attivisti di Greenpeace, mettendo a rischio la loro sicurezza.

La ruggine con l’impianto brindisino è di lunga data e l’associazione ambientalista spiega: «La centrale di Brindisi, recentemente al centro di una sporca storia di traffici di rifiuti tossici, è la maggiore singola fonte di emissioni di CO2 in Italia e Greenpeace intende ridurre queste emissioni.»

Secondo quanto dice Greenpeace con i suoi aggiornamenti sul campo «A Porto Tolle, le forze dell’ordine hanno rimosso quattro attivisti dalla base della ciminiera, mentre in cima alla stessa è sempre in corso l’azione. Al momento, non si registrano interventi negli altri siti coinvolti. A Venezia la direzione dell’impianto ha deciso di bloccare il nastro trasportatore, nonostante gli attivisti abbiano precisato non essere questo il loro obiettivo, e non siano presenti problemi di sicurezza. Greenpeace non si ritiene responsabile in alcun modo di eventuali blackout che potrebbero avvenire in seguito a simili decisioni delle proprietà. A Fusina/Marghera, Vado Ligure, e Porto Tolle, gli attivisti non stanno bloccando il funzionamento degli impianti, che possono operare normalmente. Di conseguenza, se l´impianto di Fusina dovesse essere fermato, questo atto è da imputare esclusivamente alla volontà di Enel Produzione».

Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia non dimentica quale è il bersaglio vero dei 4 blitz coordinati: «I politici chiacchierano. I veri leader decidono. Abbiamo perso anche troppo tempo e l’occasione di quest’anno, al summit di Copenhagen, è un treno che non si deve perdere! Le maggiori economie del pianeta devono decidere ora di salvarlo dai cambiamenti climatici».

E dal meeting dell’Aquila il direttore di Greenpeace Italia, Giuseoppe Onufrio, rincara la dose: «I leader del G8 devono sbloccare l’empasse del negoziato e assumere personalmente l’iniziativa, smettendola di accusare i Paesi in via di sviluppo, questa è la loro occasione per mostrare se sanno agire per il bene di tutti e sono dei veri leader, o se sono buoni solo per le chiacchiere».

Queste le richieste che Greenpeace fa ai Paesi del G8: contenere l’aumento della temperatura globale quanto più possibile al di sotto dei 2°C, rispetto ai livelli pre-industriali, per impedire cambiamenti catastrofici; assicurare che le emissioni globali raggiungano un massimo nel 2015, per poi ridursi a zero entro il 2050; tagliare le emissioni del 40%, rispetto ai valori del 1990, entro il 2020; investire ogni anno 106 milioni di dollari (74 milioni di euro), dei 140 milioni necessari, nei Paesi in Via di Sviluppo per garantire che vengano messe in atto le misure di adattamento e lotta ai cambiamenti climatici, compresa la difesa delle grandi foreste del pianeta; impegnarsi immediatamente a realizzare un meccanismo finanziario che fermi la deforestazione, e le emissioni di CO2 associate, in tutti i Paesi in via di sviluppo e che raggiunga entro il 2015 il livello di “deforestazione zero” in Amazzonia, Indonesia e Congo.

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