[09/07/2009] Urbanistica

Tra paesaggi umani e consumo di suolo: presentato il rapporto 2009 della società geografica italiana

FIRENZE. Presentata oggi a Roma l’edizione 2009 del rapporto annuale della Società geografica italiana, dal titolo “I paesaggi italiani tra nostalgia e trasformazione”. Come evidenzia il titolo scelto, il rapporto fotografa l’attualità socio-politica, economica ed ecologica dei paesaggi non urbani del Belpaese, con particolare attenzione a quella soglia su cui la società italiana cammina, affacciata da una parte sull’abuso paesaggistico (inteso non solo come edificazione abusiva, ma anche come consumo dissennato di suolo) e dall’altra sulla conservazione fine a sé stessa.

A parlare di «soglia» è stato, durante la presentazione del rapporto, Massimo Quaini, dell’università di Genova. Quaini, infatti, ha descritto come un «passaggio su una cresta montana innevata» il percorso della società italiana in direzione di una adeguata gestione del paesaggio: da una parte il burrone dell’ «annullamento del passato e del patrimonio culturale e paesaggistico, che dobbiamo invece consegnare (non solo adeguatamente conservato, ma migliorato) alle generazioni future». Dall’altra parte della cresta è il «precipizio» relativo al rischio di «essere paralizzati da una conservazione in qualche modo nostalgica, elitaria, che vede un paesaggio da conservare totalmente, in maniera assoluta». Ma il problema di fondo, secondo Quaini, è che «non si può fare conservazione se non si valorizza il paesaggio, poichè «il paesaggio non è né ambiente né territorio né economia, ma è il fulcro di tutte le questioni, ma non esiste paesaggio senza “manutenzione” attiva. Se non viene curato, il paesaggio crolla».

Quaini a questo punto ha citato a titolo esemplificativo il caso delle 5 terre (Liguria): come noto, il parco nazionale delle 5 terre, creato nel 1999, è destinato alla conservazione/valorizzazione di un paesaggio in grande prevalenza di matrice prettamente antropica. Un paesaggio che, anzi, se non avesse avuto una forte impronta antropica fin da tempi antichissimi sarebbe essenzialmente un paesaggio comune, mentre la sua particolarità è data proprio dalla forte, visibile modificazione apportata dall’uomo.

Riguardo a questo, Quaini ha allargato il discorso criticando il «mito della natura e della naturalizzazione», che insieme ad altri fattori ha fatto sì che «non siano state intraprese politiche per il paesaggio, perchè si pensava che la natura avrebbe fatto da sola: ma quei paesaggi abbandonati ai processi naturali perdevano di diversità», come dimostra la diminuizione della biodiversità floristica che, sui monti liguri, ha fatto seguito all’abbandono di alcuni pascoli. In questo senso, Quaini ha infine sostenuto che «una delle soluzioni per uscire dalla crisi è investire risorse, capitali, energie su questo territorio abbandonato ai processi naturali».

Casi simili, riferendoci alla Toscana, possono essere riscontrati nel parco di S. Rossore, dove la diminuizione dei trattamenti selvicolturali sta facendo evolvere le pinete (derivanti da impianti artificiali a cui ha fatto seguito una naturalizzazione dei popolamenti di pinus) verso il querceto mediterraneo, tipica configurazione arborea (e, in generale, botanico-naturalistica) della costa toscana. Questa evoluzione vegetale è positiva dal punto di vista del libero svolgimento di spontanei processi naturali, ma è da molti considerata negativa dal punto di vista del paesaggio, e infatti da più parti (es. rete dei comitati) sono giunti spesso appelli per la ripresa di quei trattamenti selvicolturali finalizzati alla conservazione della pineta sul litorale toscano.

Questione analoga è avvenuta negli ultimi decenni in Casentino (Prov. Firenze-Arezzo): l’abbandono di varie zone pascolive, unito ad una politica di riforestazione dei pascoli d’altitudine, ha portato ad una significativa diminuizione della biodiversità in zona: nelle aree sopra i 1000-1200 metri, infatti, la tipica evoluzione del paesaggio, se indisturbato, è la costituzione di una faggeta densa e “monoplana”, cioè senza quella stratificazione che caratterizza popolamenti più ricchi, tipici di altitudini minori. L’evoluzione da un mosaico di bosco, prati e pascoli verso una foresta molto omogenea è ovviamente associata ad una forte diminuizione della biodiversità, sia arborea (il faggio tende infatti a predominare largamente su altre specie montane, e quindi ad imporsi nel tempo costituendo popolamenti puri o misti col solo abete bianco), sia erbacea, sia animale.

E’ un problema, nei casi sopracitati, non facilmente risolvibile, poiché non sussiste sufficiente unanimità d’intenti, all’interno degli addetti ai lavori, su quale sia la strategia migliore da percorrere: è indubbio che la soluzione migliore è trovare un equilibrio tra conservazione e valorizzazione (e tra le esigenze “dell’uomo” e quelle “della natura”, cioè dell’ecosistema), ma al di là di questa considerazione banale occorre vedere, nei singoli e molteplici casi locali, quale tipo di equilibrio sia effettivamente più adatto al luogo.

Ma ritorniamo ai paesaggi “umani”: secondo quanto dichiarato nel corso della presentazione del rapporto da Francesco Maria Giro, sottosegretario ai Beni culturali, col progredire dell’urbanizzazione si è infine «spezzato il rapporto ancestrale tra cittadini e luogo in cui vivono». In particolare, Giro ha parlato di «dissoluzione tra paesaggio urbano e rurale: non c’è più l’armonia della reciproca integrazione tra città e campagna, e soprattutto ci sono moltissime zone “grigie”, né città né campagna. Questo perchè l’urbanistica si è concentrata troppo sull’organizzazione della città, che è tipicamente nodo di interessi economici, e si disinteressa della campagna. Dobbiamo affrontare il problema di questa frattura». Giro ha annunciato anche che dal prossimo agosto prenderà corpo una «nuova direzione generale dei Beni architettonici e del Paesaggio, derivante dall’accorpamento delle due diverse direzioni generali attuali».

Nel suo intervento, Enrico Letta (Pd) si è focalizzato sugli aspetti economici inerenti alla questione, sostenendo che «il paesaggio è un bene economico, è produzione di ricchezza: spesso si pensa di legare la tutela del paesaggio a politiche per la decrescita: non è così, esso è invece è elemento di crescita del paese e dell’economia. Ma la creazione di valore ha bisogno di tempi medio-lunghi», ed è proprio sull’accorciamento e sulla buona gestione di questi tempi che la politica deve esercitare la sua azione. Letta ha poi ricordato l’esigenza di politiche che contrastino l’abbandono della montagna, difendendo il «ruolo fondamentale delle comunità montane, contro cui invece negli ultimi tempi si è fatto la guerra».

Infine, la questione relativa al consumo di suolo: secondo le anticipazioni pubblicate oggi su “Repubblica”, il rapporto sostiene che nell’Italia di oggi «il disastro ai danni del paesaggio non sta tanto nello scandalo dei grandi abusi e nei mostri edilizi, quanto piuttosto nell’erosione continua, quotidiana, che si consuma sotto ai nostri occhi, e minaccia di cancellare del tutto il confine tra città e campagna».

Quando si parla di questo argomento, la prima cosa da fare da parte di chi fa informazione sarebbe presentare i dati disponibili. Ma a questo proposito, come greenreport ha osservato più volte, purtroppo non possiamo fare altro che riportare l’ormai cronica disomogeneità dei dati, e la tuttora perdurante carenza di essi. A questo proposito citiamo anche il rapporto dell’Osservatorio sul consumo di suolo, elaborato da Legambiente, Inu e politecnico di Milano e presentato il 7 luglio: un rapporto che teoricamente aveva l’ambizione di fotografare l’intera realtà nazionale, ma che all’atto pratico si è tradotto nell’analisi relativa a sole quattro regioni (Friuli, Lombardia, Piemonte, Emilia), con stime che parlano di «20 ettari al giorno» (quindi circa 7300 Ha/anno) di suolo consumato in media nelle regioni citate.

Questa è la situazione, quindi: non esistono ancora dati nazionali omogenei sul consumo di suolo, e in materia si naviga tuttora a vista confrontando dati pubblicati da enti e associazioni diverse: come si ricorderà, già greenreport aveva espresso la sua forte perplessità davanti alla forbice rappresentata dai dati nazionali espressi da Irpet nel suo rapporto (esplicitamente sperimentale) sul territorio toscano – circa 8200 Ha/anno – e quelli presentati dal “Manifesto per lo stop al consumo di territorio”, che parlava di «quasi 250.000 ettari l’anno». Entrambi dati, ribadiamo, nazionali. E ora si aggiunge anche il dato pubblicato nei giorni scorsi dall’osservatorio. Secondo “Repubblica”, i geografi «sostengono che per tutelare il paesaggio occorre prima sapere di cosa si parla». E qui sta il problema: dal punto di vista quantitativo, ancora non sappiamo di cosa si parla.

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