[09/07/2009] Comunicati

Partecipazione in Toscana: il punto con Rodolfo Lewanski (Authority per la partecipazione)

FIRENZE. A che punto è la partecipazione civica e amministrativa, in Toscana, a un anno e mezzo dall’approvazione della legge 69 del dicembre 2007, prima normativa regionale organica sulla materia? Quali i punti di forza del percorso politico in atto, e quali le criticità? Come (e se) sono state affrontate, in questi mesi, le questioni inerenti alla difficoltà, insita in svariati processi partecipativi, di conciliare tra loro gli obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale?

Per un approfondimento abbiamo rivolto alcune domande a Rodolfo Lewanski ((Nella foto)), docente di Politica dell’ambiente presso l’università di Bologna e, dal settembre 2008, a capo dell’Autorità regionale toscana per la partecipazione. Secondo la legge 69, il ruolo dell’Autorità consiste nella valutazione dei progetti partecipativi presentati, nella decisione sul loro accoglimento o meno, e in varie altre attività finalizzate alla gestione, al finanziamento, alla comunicazione relativa ai processi accolti e ai risultati da essi offerti.

Lewanski, a che punto siamo con la partecipazione in Toscana, ad un anno e mezzo dalla promulgazione della 69/2007?

«La situazione è positiva: abbiamo le risorse necessarie, e già nel primo anno dall’uscita della legge regionale le abbiamo investite tutte, accogliendo tutte le domande presentate. Quest’anno, probabilmente, non tutte le richieste saranno esaudite. Quindi c’è interesse, sia da parte degli enti locali che dei cittadini, e le cose vanno abbastanza bene, anche se devo dire che l’Autorità da me presieduta non gode di uno staff sufficiente. Speriamo di crescere, dai segnali ricevuti si vede che l’interesse c’è. La sfida è anche culturale: la partecipazione nell’accezione odierna è cosa molto diversa dal vecchio modo di “fare partecipazione”: non è più una semplice serie di assemblee, com’era in passato» (il termine e le tematiche relative furono introdotte nell’urbanistica italiana negli anni ‘50-’60 del secolo scorso, seguì poi un “fervore partecipativo” che perdurò fino ai primi anni ’70, poi la materia decadde dall’interesse generale, per riaffacciarsi poi nei primi anni ’90, nda).

Partecipazione e obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale: spesso queste due declinazioni della sostenibilità si trovano in contraddizione tra loro, nell’ambito di processi partecipativi. Tanto per fare un esempio di scuola, possiamo pensare ad un processo partecipato per l’assestamento di un’area a verde pubblico, in cui una parte dei cittadini spinge per una diminuzione dell’area verde a favore della realizzazione di parcheggi per la mobilità privata. Altro esempio può essere la partecipazione alla realizzazione di una linea tramviaria, con associati tentativi di boicottaggio di essa da parte di cittadini che (dal loro punto di vista, legittimamente), chiedono di favorire invece la mobilità privata. E così via. Quali soluzioni al problema?

«Nessuna soluzione, mi viene da dire: se fai un “appello” per la partecipazione civica, poi prendi quello che viene, cioè che sorge dal processo partecipato. In realtà, però, la democrazia deliberativa (di cui la partecipazione fa parte integrante) comprende in sé elementi di dialogo, di informazione. Questi fattori fanno sì che i partecipanti ai processi puntino anche ad aspetti più strettamente “ambientali”: ad esempio, pensiamo a quanto avvenuto nella discussione sul Piano strutturale di Prato, o ancor più alla sistemazione di via Roma ad Agliana (Pistoia): in quel caso, sono stati eliminati alcuni parcheggi. Se l’avesse fatto il comune, apriti cielo. Ma sono stati i residenti stessi a chiedere la realizzazione di una pista ciclabile, eliminando alcuni posti auto.

Quindi, è vero che non necessariamente, in un processo partecipato, la sostenibilità sociale e ambientale vanno di pari passo: ma non necessariamente si escludono tra loro».

In questo senso, studiosi della partecipazione del verde pubblico (come Ann Van Herzele, del dipartimento di ecologia umana dell’università di Bruxelles) hanno parlato della necessità, all’interno di un percorso partecipativo, dell’instaurazione di un processo di “educazione reciproca e permanente” tra decisori, tecnici e stakeholders. Ciò è considerata condizione necessaria per l’attivazione di un percorso partecipato che tenga in debito conto anche la sostenibilità ambientale.

«Si, con la partecipazione il cittadino, in un certo senso, ha accesso alla stanza dei bottoni. Ma deve farlo necessariamente in modo informato. Ad esempio, prima di parlare di contrasto all’inquinamento in un processo di partecipazione, è necessario che tutti gli intervenuti sappiano cos’è il Pm10: e così spesso non è, invece. Comunque sono fiducioso che le cose miglioreranno, una volta capite le questioni e superata la cronica manipolazione mediatica che colpisce anche questa materia.

A questo ultimo proposito, voglio citare un dato: qual è la prima causa di morte non naturale, in Italia? I cosiddetti “sinistri”, seguiti dagli incidenti sul lavoro. I morti per atti violenti sono più in basso. Ma i media spesso spingono per fare credere che non sia così, peraltro adottando uno stile comunicativo definibile come “sound-bite”, che affronta le questioni in modo enfatico, che non lascia all’ascoltatore/lettore il tempo per riflettere».

Veniamo all’argomento del seminario di ieri, e cioè “Ambiente e salute: aspetti scientifici, etici e di comunicazione”. Cosa dire riguardo al rapporto tra partecipazione e politiche integrate ambiente/salute?

«Come detto prima, non possiamo predeterminare la partecipazione. Ma se il cittadino intervenuto per un qualsiasi processo partecipativo dice “non voglio parlare dell’oggetto in questione, ma del tessile a Prato” si può provare ad andargli incontro, ma diventa tutto più difficile, e comunque credo debba essere il proponente a definire l’agenda del progetto.

Questo perché, in un mondo ideale, noi potremmo convocare la cittadinanza e chiedere “su cosa volete esprimervi? Decidete voi”, ma in pratica le cose non vanno così, anche perché la partecipazione è molto costosa. All’estero sono state tentate esperienze di partecipazione “aperta”, anche nel campo sanitario: si può fare, ma è molto impegnativo».

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