[16/06/2006] Rifiuti

Rifiuti, tra rimozione e soluzioni

LIVORNO. Ieri, come ogni anno, Legambiente ha presentato il rapporto sulle ecomafie. E come ogni anno, media ed esponenti politici, hanno dato risalto ad un fenomeno che cresce, con l’evidenza dei numeri, rigorosamente monitorati. Come è ovvio, dietro a questi numeri vi sono certamente situazioni differenti e vicende diverse che hanno anche epiloghi diversi (e di cui, normalmente non viene dato conto).
Ma ciò, nella società dell’immagine e, come è stato documentato da greenreport, in un contesto dove l’informazione e la comunicazione «che tira sul mercato» è solo quella «negativa» (mai indirizzata, cioè, alle cosiddette best practices) appare assolutamente normale.

Ciò che normale non è, anzi è patologico (malato, e quindi da curare) è il fatto che nessuno si interroga sul perché, questi numeri crescono nonostante le grida di dolore del mondo ambientalista. Come nessuno si interroga sul perché la politica (che invece è deputata a dare soluzioni) si limita ad applaudire entusiasticamente al lavoro di Legambiente. L’unica proposta in campo da parte del mondo politico è quella votata all’unanimità, nella scorsa legislatura, di introdurre nel codice il «delitto ambientale».

Ci auguriamo vivamente che ciò accada presto ma, allo stesso tempo, siamo convinti che il terreno di una più cogente repressione verso gli illeciti ambientali debba essere accompagnato dalla parte che tende a creare le condizioni operative affinché vi siano reali alternative di mercato nella scelta fra comportamenti scorretti e comportamenti corretti. Altrimenti il problema non sarà avviato a soluzione.
Proviamo ad argomentare il nostro punto di vista.

La produzione dei rifiuti nel nostro Paese ammonta a circa 100 milioni di tonnellate all’anno. Di questi, solo il 30% sono rifiuti urbani. Discussioni, conflitti, sforzi e finanziamenti sono tutti indirizzati a dare soluzione ai rifiuti urbani. Del 70% del problema (speciali e pericolosi) nessuno se ne occupa. Decreto Ronchi e Testo Unico portano, entrambe, queste, stigmate.

La Commissione Parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, all’epoca presieduta da Scalia, già alla fine degli anni ‘90 ebbe modo di evidenziare che le infrastrutture necessarie a recuperare, innocuizzare e smaltire correttamente questo tipo di rifiuti non superavano il 30% della domanda di mercato (in Toscana è dal 1980 che il tema dello smaltimento dei rifiuti pericolosi non trova risposta alcuna). In queste condizioni, c’è perfino chi, insieme alla ripubblicizzazione dell’acqua, invoca l’assoluta autonomia del mercato nel settore dei rifiuti speciali e l’assoluta delega alle imprese (che in Toscana sono circa 420.000).

Chiunque si occupi di ambiente e di rifiuti sa che la regola aurea è quella della loro «riduzione alla fonte» e che l’impiantistica di smaltimento va progressivamente abbandonata per dotarci di una impiantistica al servizio della diminuzione della pericolosità e del recupero di materia più che di energia. Dovrebbe essere assolutamente evidente che i controlli devono andare in parallelo alla filiera «riduzione-recupero-smaltimento» e non concentrarsi su di un solo anello. Invece non si capisce (o si capisce troppo bene?) come mai i «controlli alla fonte», cioè dove i rifiuti vengono originariamente prodotti, sono sostanzialmente assenti. E il Testo Unico, da questo punto di vista, deresponsabilizza ancora di più i produttori.

Questo contesto determina una paradossale percezione collettiva per la quale se un Kg di rifiuto pericoloso (ogni anno in Toscana se ne producono oltre 500.000 tonnellate) viene prodotto in una qualsiasi fabbrica e/o impresa, il problema non esiste perché psicologicamente rimosso. Se invece quello stesso Kg di rifiuto pericoloso entra in un impianto autorizzato alla inertizzazione (e magari, perciò, cambia anche legittimamente codice) diventa automaticamente una «bomba ecologica» da scansare e da denunciare. A prescindere.

Aggiungiamo a tutto ciò quello che ormai vanno dicendo tutti gli esperti: e cioè che la normativa sui rifiuti è diventata (non da ora, come ci riferisce il direttore dell’Arpat) una giungla inestricabile (è la UE, nella sua proposta di direttiva, che esprime la necessità, perfino, di stabilire cosa è e cosa non è rifiuto), che le interpretazioni soggettive dei molteplici organismi di controllo (tra loro non coordinati) sono spesso in contraddizione, che questa situazione tende a deresponsabilizzare e ad allontanare da sé il problema rinviando tutto alla magistratura (come se questa, d’improvviso, potesse surrogare tutte le risposte che non hanno dato coloro che dovevano darle). Ne ricaviamo che, in assenza di una svolta di 180°, c’è solo da aspettarsi, anche per il prossimo anno, un aumento del fenomeno delle ecomafie. Magari spostato un po’ più in qua o un po’ più in là come anche quest’anno. Ma certamente continuerà a crescere. E, in contemporanea, continuerà una ulteriore diminuzione della già rachitica offerta di mercato corretta (qual è quell’imprenditore corretto che vorrà continuare ad esporsi a questi rischi?). Proprio quella offerta, tanto per dire, che in Francia, in Olanda, in Germania (dove non inviamo solo i rifiuti urbani della Campania, bensì anche quelli pericolosi della Toscana), rappresenta una moderna filiera dell’industria ambientale che stimola l’innovazione tecnologica di processo per la riduzione alla fonte mentre da noi è terreno di rimozione psicologica e di ecomafie.

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