[17/07/2006] Recensioni

La Recensione - Economia leggera, a cura di Raimond Bleischwitz e Peter Hennicke

Questo volume si occupa degli studi del Wuppertal Institut sui concetti di ecoefficienza applicati in Europa e dei flussi di materia e di energia. E’ un testo quindi collettaneo i cui curatori, Raimond Bleischwitz e Peter Hennicke, sono uno capo del gruppo di ricerca “Material Flows and Resource Management” e l’altro è Presidente del Wuppertal Institut.

Fu proprio questo istituto che nel 1997 lanciò lo slogan del “Fattore 4” con il quale voleva intendersi l’obiettivo di raddoppiare la ricchezza dimezzando il consumo delle risorse.

A distanza di quasi dieci anni i due curatori del volume aprono in premessa con una affermazione, a dire il vero, un po’ ardita: “….il mondo ha acquisito la consapevolezza che le questioni ambientali vanno affrontate alla radice”. A dimostrazione che quest’affermazione può essere intesa, al massimo, come un auspicio, basterebbe scorrere i rapporti del WorldWatch Institute. Oppure, più semplicemente, basterebbe affiancarla alla osservazione, fatta appena qualche riga dopo, che “sebbene il termine sviluppo sostenibile sia ormai molto utilizzato, esso deve ancora essere tradotto in strategie pratiche di azione e in validi metodi di misurazione”.

E’ del tutto ovvio che, fin quando non si saranno messi a punto ( ed utilizzati) “validi metodi di misurazione”, sarà ben difficile andare alla radice dei problemi della sostenibilità dello sviluppo.
In ogni caso la tesi del Wuppertal, oggi condivisa da moltissimi attori dello sviluppo sostenibile, tende a dimostrare la compatibilità tra la creazione di ricchezza e l’attenuazione della pressione ambientale attraverso la prassi dell’ecoefficienza e con l’obiettivo di ottenere benefici sia per l’economia che per l’ecologia.

In effetti non mancano esempi in cui, nelle economie occidentali, si è dimostrato che in pochi anni è possibile migliorare l’efficienza dei processi produttivi proponendo al mercato prodotti che implicano minori costi per l’utente finale, minore generazione di rifiuti e minori oneri per la collettività. E l’efficienza si tradurrebbe in ecoefficienza quando l’intero processo di produzione conciliasse le priorità ambientali con le esigenze del business. Questi fattori, secondo gli autori, “non sono affatto antitetici e anzi possono (potrebbero? ndr) felicemente integrarsi se si abbandonano i pregiudizi e si libera la creatività”.

Questa convinzione viene supportata, nei cinque capitoli, da una disamina sui flussi di materia e di energia, sul progresso tecnologico, sul business sostenibile e le strategie di consumo, sulle nuove politiche di regolamentazione e sul problema ( e quindi sulla necessità) di dotarsi di dati e indicatori sui flussi di materiali e sulla contabilità ambientale in generale.
Il punto di partenza dello studio è l’assunto per il quale “il mondo dell’impresa può essere interessato dall’idea di coniugare l’innovazione con un minor utilizzo delle risorse naturali, giacchè riducendo l’uso di energia e di materiali deve sopportare minori costi” anche se, viene aggiunto “non si può certo pensare che la sola spinta autonoma del settore privato sia sufficiente a portare i mercati verso il fattore 4……. e che, perciò, l’ecoefficienza ha bisogno di nuove politiche”.

Nel volume si fanno molti e interessanti esempi: dalla tassa sulle materie prime dei Paesi scandinavi alla Strategia Nazionale di Sostenibilità della Germania (che postula il raddoppio della produttività delle risorse entro il 2020). C’è da chiedersi innanzitutto, in un panorama imprenditoriale-industriale come quello Italiano, formato per lo più da imprese minuscole e comunque recalcitranti persino all’applicazione del protocollo di Kyoto, quanto quel poco di ricerca applicata che viene intrapresa riesca ad affrancarsi dallo sforzo spasmodico di risparmiare lavoro anziché risorse naturali.

E in secondo luogo se, come sta effettivamente succedendo da anni, migliora l’efficienza di processo e di prodotto, ma continuano ad aumentare i volumi complessivi, il disaccoppiamento potrà continuare sulla singola unità di prodotto ma non a livello di bilancio globale.

Inoltre è sacrosanto che venga indicato come “ necessario spostare l’attenzione verso il punto di ingresso delle risorse nei processi produttivi” ma è dubbio che in Italia si “va(da) estendendo l’idea di affrontare i flussi di materiali anziché gestire a valle gli imballaggi, i rifiuti o le sostanza di scarto”.

La famosa legge Toepfer che impostava una corretta gestione a valle dei rifiuti e degli imballaggi in Germania è dei primi anni ‘80. Ed è proprio dalla esperienza diretta e concreta di una buona gestione a valle che si è potuto acquisire conoscenza e competenza per indirizzarle verso una migliore gestione dei flussi in ingresso. Non dimentichiamoci, appunto, che quando il sistema end of pipe, dei servizi a valle, funziona e i costi vengono accettati, diventa naturale indirizzare risorse a monte per evitare proprio quei costi a valle.

Ma da noi il Decreto Ronchi è del 1997. E mentre scriviamo è vigente il testo Unico di Matteoli che, per molti aspetti, ci riporta indietro ai primi anni ’90 ed ha pure ottenuto il plauso della Confindustria nostrana. Non è un caso che i policymaker da noi siano tutt’altro che impegnati a “incentivare il buono: informazione, innovazione, processi di formazione……riducendo le forme di command and control”. Nel paese delle ecomafie non viene in mente a nessuno di controllare i produttori di rifiuti, né viene in mente il link fra le ecomafie e il drammatico deficit di servizi e di impianti. L’arretratezza politica, amministrativa e tecnologica dell’Italia (come ha avuto modo di affermare Massimo Scalia su greenreport) indirizza le attenzioni dei nostri policymaker più sensibili, non sarà un caso infatti, tutta nell’introduzione dei reati ambientali nel codice penale.

Non c’è dubbio che “qualsiasi politica governativa di regolamentazione dovrebbe puntare a stimolare i processi di apprendimento e di approfondimento delle esperienze pilota” e delle buone pratiche. Esperienze pilota e buone pratiche che esistono anche in Italia ma sulle quali si preferisce scaricare una coltre burocratica opprimente (per non parlare di un impianto di recupero di inerti, basti vedere le peripezie per mettere un pannello solare o una pala eolica) favorita dall’assoluto disinteresse dei media che non sia quello sulle “bombe ecologiche” e sui “megaimpianti”.
C’è da chiedersi allora quante e quali asimmetrie comportamentali esistano in questa Europa (ora a 25) e come sia possibile allineare i Paesi membri alle migliori esperienze in atto.

“Lo studio ha rivelato l’esistenza di gap informativi che devono essere colmati dalle statistiche ufficiali……quasi in tutti i settori permane una mancanza di informazioni utili per sostenere azioni tese al raggiungimento dello sviluppo sostenibile…… e ha sottolineato lacune specifiche rispetto ai flussi di materia, all’energia e all’edilizia, che dovrebbero essere considerate in sede di revisione delle statistiche ufficiali”. Ecco, per recuperare il terreno perduto dall’Italia nei confronti delle migliori esperienze europee, si potrebbe provare a ri-partire da qui: dalla messa a punto di indicatori (quelli dell’Istat sono insufficienti); dalla introduzione della contabilità ambientale a tutti i livelli di amministrazione (come finalmente viene nominata nel DPEF del nuovo governo) in modo da rendere possibile misurare ( in modo attendibile almeno quanto il PIL) la sostenibilità ambientale; dal promuovere i bilanci ambientali da affiancare a quelli economici sia nelle istituzioni che nelle imprese; e, infine, dalla promozione del L.C.A ( analisi del ciclo di vita) in tutte le imprese, non solo in quelle industriali. L’ecoefficienza quantomeno avrebbe riferimenti concreti anche da noi.

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