[11/08/2006] Parchi

Franco Tassi: Troppi interessi strani in questa storia dei caprioli

ROMA. Il professor Franco Tassi, che ha diretto per 33 anni il Parco Nazionale d’Abruzzo, ha insegnato per anni ecologia applicata alla facoltà di veterinaria dell’Università di Napoli ed è il fondatore del Comitato parchi. Tassi (nella foto) anche noto per aver riportato nel parco più difficile d’Italia caprioli e cervi, perché lanciò l’operazione San Francesco in difesa del lupo appenninico, perché sottrasse all’estinzione l’orso marsicano e diffuse i camosci nelle altre montagne abruzzesi.

Professor Tassi, in questi giorni ci troviamo nel pieno della "guerradei caprioli": è davvero necessario far strage di caprioli, o esistono anche altre soluzioni?
«Il capriolo non rappresenta una calamità naturale, e non va considerato il nemico pubblico numero uno. Fortunatamente quest’animale, dal dopoguerra in poi, ha preso a diffondersi anche dove la sua memoria era quasi scomparsa, e sarei davvero curioso di sapere quali danni alle colture si pretenderebbe di attribuirgli. Quanto al traffico, esistono molti metodi semplici e poco costosi (come catarifrangenti luminosi, barriere seminaturali, corridoi-invito di attraversamento e altri: ma soprattutto limiti di velocità, le strade di foresta e montagna non vanno scambiate per piste), utilissimi per prevenire incidenti. Questa storia dei “caprioli che investono le automobili” mi ricorda un poco quella dei viali storici “pericolosi” in forza della quale qualche decennio fa l’Anas fece piazza pulita di grandi alberi innocenti… Ma nessuno si chiede come mai, appena fuori dei confini italiani, è possibile ammirare uccelli, scoiattoli e anche caprioli che pascolano tranquillamente non lontani dalla strada, senza che nessuno dichiari loro una “guerra santa”?

Perché allora secondo lei questa scelta?
«Premetto anzitutto che stiamo parlando di caprioli, e non di cervi o di daini, né tanto meno di cinghiali, perché ogni caso è diverso dagli altri. Temo che l’italiano non abbia perso il suo atavico istinto di cacciatore-bracconiere, e che trovi ogni pretesto per sparare a tutto ciò che vola o si muove. Se poi gli eccessi venatori fanno terra bruciata nelle zone aperte alla caccia, allora bisogna inventare qualche buona ragione per entrare a divertirsi nelle altre: e cioè nelle bandite, e nelle aree protette, là dove la fauna stava trovando tranquillità e rifugio, le madri di cervi e caprioli allattavano i piccoli senza continue fughe da cardiopalma, e i visitatori riuscivano finalmente ad ammirare animali diventati più confidenti. Ecco nascere allora i “selecontrollori”, che soddisfano non solo la voglia insana di cacciare dove è proibito, ma anche gli interessi di coloro che fabbricano fucili e cartucce, ai quali il deserto faunistico rischiava di compromettere gli ottimi affari di sempre».

Catturare caprioli e altri ungulati è davvero così difficile e costoso? E traumatizzante per gli animali stessi come ha detto qualcuno?
«A questo punto entriamo nel grottesco, perché chi spara al capriolo per evitargli lo “stress” di un trasferimento altrove mi ricorda la dottrina Bush che beatificava i tagli a raso nelle magnifiche foreste di conifere del Pacific Northwest, perché in questo modo si sarebbero evitati gli incendi. Catturare i caprioli è possibile, e noi lo facevamo con grande successo già una trentina d’anni fa nel Parco d’Abruzzo, quando mezzi, tecnologie e competenze erano assai più limitati. Portando nel Parco una sessantina di individui, ponemmo le basi perché il capriolo si diffondesse in tutto l’Appennino Centrale. Il costo può risultare elevato, solo se si affida questo compito a ditte e a santoni para-accademici che vi vedono un altro eco-business. Potrebbe invece trasformarsi in una splendida risorsa, se si impiegassero come volontari gruppi di studenti o neolaureati veterinari, diretti da un veterinario professionista naturalista o animalista. Sarebbe uno splendido tirocinio per futuri professionisti che sempre più dovranno affrontare le problematiche degli animali selvatici, e non solo di quelli domestici, e un ottimo investimento per l’intera comunità. Ovviamente dovrebbero essere sostenute spese tecniche e logistiche, ma dividendole tra coloro che donano e coloro che accettano i caprioli, e i ministeri, le regioni e le province competenti, i costi verrebbero ripartiti in quote sostenibili. Molte località del Mezzogiorno si avvantaggerebbero di un nuovo richiamo turistico. E non dimentichiamo una cosa: quando trasportammo i camosci d’Abruzzo al Gran Sasso e alla Maiella, impiegammo elicotteri dell’esercito, che collaborò con gioia e orgoglio a queste insolite operazioni. Tutti i mezzi di trasporto militare, aerei e marittimi soprattutto, debbono compiere periodicamente un certo numero di ore di esercitazione: assegnare ai nostri giovani che li guidano compiti civili come questi sarebbe assai meglio che farli girare senza scopo, o lanciarli in missioni dubbie e rischiose».

Contro l´uipotesi dei trasferimenti dal Nord al Sud sono esplose polemiche, e pare che molti esperti non siano d’accordo…
«Non si tratterebbe certo di paracadutare a caso caprioli dove capita, ma di studiare un piano ben congegnato. So bene che qualche superspecialista pone il veto per difendere la purezza del capriolo italico dei Monti di Orsomarso, ma quando noi, soli contro tutti, rischiavamo parecchio per difenderlo dalla caccia e dal bracconaggio, nessuno di loro interveniva in appoggio. E forse si dovrebbe far loro sapere che Sila, Serre ed altre zone demaniali calabresi sono già state invase, fin dal secolo scorso, di caprioli settentrionali portati a più riprese dai forestali. Informandoli anche del fatto che in futuro il capriolo presente nell’Appennino Centrale, espandendosi, arriverà comunque prima o poi nei luoghi più intatti del Mezzogiorno, anche a dispetto delle legioni di fucilieri in agguato. E poi perché non vedere i molti vantaggi dell’operazione? L’Aspromonte, alla fama sinistra del passato, sostituirebbe il messaggio della rinascita della natura. I lupi calabresi inseguirebbero caprioli secondo le dure, ma ineluttabili leggi della natura, anziché dover sbranare pecore spinti dalla fame, finendo poi avvelenati…


Insomma, sembra che lei immagini quasi un´utopia, un’Italia verde e ricca di animali felici...

«Un “bel Paese” non turbato da troppi spari, rumori e inquinamenti deve occupare il nostro immaginario, e non costituisce un’utopia: deve rappresentare per tutti un obiettivo e una “missione”. O forse sarà meglio coprire anche le colline e le montagne, dopo le coste, di strade e case, asfalto e cemento, creando quella squallida “megalopoli” diffusa di cui rischiamo di diventare presto prigionieri senza scampo?
Negli anni Sessanta la “visione comunitaria” dell’Europa, attraverso il Piano Mansholt (oggi dimenticato nella febbre del mattone e delle grandi opere) era proprio questa. Abbiamo occupato già i nostri spazi, forse troppi. Lasciamo che la natura possa riespandersi su ciò che resta della vera Terra, abbiamo bisogno anche di questo. Il novanta per cento degli interventi sparati a raffica in questi giorni sui quotidiani (abbiamo raccolto memorabili antologie di incompetenze, deliri e farneticazioni provenienti da superspecialisti, politicanti, responsabili istituzionali, e anche giornalisti) poteva francamente esserci risparmiato. Ma almeno ci ha fatto capire meglio, o confermato per chi lo sapeva già, quale idea e cultura della natura dominino l’attuale classe dirigente del Paese».

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