[21/08/2006] Recensioni

La recensione - Il diritto di sognare di Riccardo Petrella

Una realtà da incubo può essere superata da un sogno?
E’ questo l’interrogativo di fondo che suscitano le oltre duecento pagine di questo libro.

Ma forse la risposta la da il sotto-sottotitolo: “il sogno è il rifiuto di subire il presente”. Appunto, il sogno non è (ancora) un progetto per il futuro. Può esserne la premessa ma non rappresenta un progetto.

Scritto nel 2004, questo testo, è già in grado dunque di offrirci la misura di ciò che, nel frattempo, è cambiato. In meglio e in peggio. E di ciò che non è cambiato affatto. Con questi attori (tutti) in campo.

Il libro consta sostanzialmente di due parti: una analitico-descrittiva dello stato attuale della globalizzazione e l’altra si sforza encomiabilmente di produrre proposte.

Nella prima parte si descrive la quintessenza dell’attuale fase della globalizzazione che avrebbe le sue radici “nel cambiamento profondo intervenuto in questi ultimi trent’anni a livello di concezione della società, che ha partorito una cultura i cui valori – e le pratiche politiche, economiche, sociali e culturali – gravitano attorno a tre poli: la proprietà, lo stile di vita, la sicurezza”. Lo stile di vita –il consumo, l’apparire- dice Petrella, “riassume la gerarchia delle priorità sul piano dei valori, delle finalità e dei rapporti fra le persone. Ogni individuo può intervenire nelle decisioni relative all’assegnazione delle risorse disponibili nella misura in cui è consumatore solvibile e/o detentore di capitale. Se non è nell’uno né l’altro, non conta nulla. Le decisioni in materia di produzione e di redistribuzione della ricchezza gli sfuggono interamente”.

Se questa fosse la esclusiva realtà e se “le classi dirigenti”, tutte, “non credono più – se mai vi hanno creduto- nel diritto alla vita per tutti nell’idea che si possa sradicare la povertà con azioni intraprese dagli stati e dalla comunità internazionale, e che si possa realizzare una giustizia sociale condivisa da tutti”, non si capisce, francamente, come una situazione simile possa essere rovesciata “dai sem terra del Brasile e dai senzatetto dell’Europa occidentale o dalle popolazioni autoctone dell’Amazzonia”.

Non solo. Nella contrapposizione operata da Petrella fra modello del welfare degli anni ’50 e ’60 e ciò che è seguito nei trent’anni dopo, c’è una sottovalutazione (se non una omissione) palese. Il modello del welfare , che appunto, e peraltro, era circoscritto all’Europa occidentale, si è potuto reggere (come dicevano Willy Brandt, Olaf Palme e Enrico Berlinguer) proprio su un rapporto impari e di dominio con i cosiddetti, allora, paesi del terzo mondo. Come è già stato osservato da altri autori insomma, “la riduzione delle disuguaglianze di reddito fra le persone, le famiglie e le regioni all’interno dei paesi sviluppati”, l’ordine e il livello di giustizia sociale raggiunto attraverso il welfare nei paesi europei, erano dovuti anche al disordine e all’ingiustizia sociale prodotta nei Paesi poveri.

Ad ogni buon conto Petrella non si sottrae alla pars costruens e, dopo aver analizzato lo stato dell’attuale fase della globalizzazione (dalla quale se ne ricava un quadro fin troppo disperato), non solo nomina i soggetti sui quali far leva per il cambiamento (vedi sopra), bensì definisce le “due strade” necessarie per ottenerlo: 1) “bisogna dichiarare fuorilegge” tutto ciò che contribuisce a creare, mantenere e rafforzare la povertà”; 2) bisogna creare “un sistema di finanziamento cooperativo, fondato su una fiscalità al servizio dell’allocazione redistributiva delle risorse disponibili”.

Accanto a concetti assolutamente condivisibili (dichiarare, appunto, illegale la povertà) si affiancano affermazioni che danno il senso della praticabilità come quella in cui si sottolinea “il non rispetto delle convenzioni e dei trattati internazionali (in vigore) e solennemente firmati dagli stati”.

Accanto a categorie un pò troppo generiche come quella dei “cittadini” che dovrebbero far nascere “un nuovo diritto sociale” mondiale, appaiono indicazioni francamente un po’ dubbie (sostenute anche da Tremonti e dalla Lega di Bossi) che riguardano un non meglio precisato divieto di delocalizzazione per le imprese e la difesa di economie locali che oggi avviene anche con dazi che colpiscono le produzioni dei paesi poveri. Il tutto condito da dichiarazioni di illegalità che non si sa chi dovrebbe emanare visto che, come dice Bauman, “non esiste un quadro legale della globalizzazione”.

La formula, condivisibile ma generica e insufficiente quanto scontata, per il superamento della situazione attuale starebbe nell’adozione di una……economia di mercato mista: “pubblica, cooperativa e privata”. La domanda iper-retorica che sorge spontanea è: ma in un economia (sia pure mista) di mercato, è meglio favorire la concorrenza fra i soggetti presenti, oppure favorire i mono-oligopoli? Più esplicitamente: data una economia di mercato (sia pure mista) è più funzionale per i cittadini liberalizzare o proteggere?

Il punto dolens per una politica che guardi alla sostenibilità sociale e ambientale è esattamente come calibrare questo mix. Sapendo che efficienza ed efficacia, in una economia mista, non sono circoscrivibili al privato. Pena far pagare proprio al “cittadino” le inefficienze della burocrazia pubblica.

E infine, chi dovrebbe dichiarare che “l’aria, l’acqua, la pace, lo spazio, le foreste, il clima globale, la sicurezza, la stabilità finanziaria, l’energia, la conoscenza, l’informazione e la comunicazione” sono beni pubblici? “Istituzioni mondiali efficaci e democratiche”, si risponde da parte di Petrella!

Ma il punto, come riconosce lo stesso autore, è che “quando si parla di potere politico legislativo, esecutivo e giudiziario a livello mondiale, tutto è da inventare” e “una rifondazione radicale del sistema ONU in una Organizzazione mondiale dell’Umanità (OMU) che dovrebbe ( toh, guarda!) anche avere il controllo di una forza permanente d’intervento rapido” si scontra “con lo spirito dei tempi (che) non va in questa direzione ed è segnato da logiche oligarchiche, di esclusione, antidemocratiche”.

E alla fine si è costretti a tornare alla questione delle questioni: come si costruiscono diversi poteri e come si orientano diversamente quelli attuali. E qui il sogno è necessario quanto insufficiente. “La presenza di partiti politici e di sindacati rinnovati nelle loro forme e modalità di azione”, dice Petrella, “non è mai stata tanto opportuna e desiderabile come oggi”. Appunto!

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