[11/09/2006] Rifiuti

Ancora sui gassificatori «alternativi» agli inceneritori

ROMA. «Abbiamo trovato la soluzione al problema dei rifiuti». Tante volte abbiamo ascoltato questa frase dal venditore di turno di impianti e brevetti per smaltire i rifiuti. C’è chi propone la torcia al plasma, chi i gassificatori, chi gli impianti di pirolisi. Ce n’è per tutti i gusti. Ognuno ha la sua ricetta per recuperare energia dai rifiuti, snocciolando i tanti pregi delle nuove tecnologie rispetto a quella definita obsoleta e inquinante dell’incenerimento.

La novità dei giorni scorsi è che l’impianto che manderà in soffitta gli inceneritori questa volta non è stato pubblicizzato dal rappresentante dell’ennesima Srl dal nome che inizia per “eco” che ti spaccia il suo prodotto “chiavi in mano” come l’ultimo gioiello della tecnologia, ma dal responsabile nazionale energia e innovazione dei Verdi.

E la nuova soluzione è stata definita impianto a dissociazione molecolare, già attivo in Islanda e oggetto di visita da parte di una delegazione italiana.

Senza entrare troppo nel merito tecnico, l’impianto in questione non sembra una grande novità. E’ infatti un gassificatore che produce un gas di sintesi da bruciare per recuperare energia elettrica ed eventualmente termica. Non proprio un esempio di tecnologia a freddo tanto in voga negli ultimi tempi tra chi si oppone alla realizzazione degli inceneritori.

Stiamo parlando poi di un impianto dalle dimensioni piuttosto limitate, che gassifica nella configurazione islandese alcune decine di tonnellate di rifiuti al giorno, l’equivalente del quantitativo trasportato da pochi autocompattatori. Sostenere che una tecnologia del genere può sostituire da subito quella dell’incenerimento sembra francamente velleitario, soprattutto perché la potenzialità dell’impianto assunto a modello è risibile rispetto ai quantitativi prodotti nelle nostre città, a meno che non si vogliano localizzare un numero consistente di impianti sul territorio. Va poi valutato con che tipo di rifiuti (urbani tal quali o pretrattati, speciali, pericolosi o non) questi impianti funzionano al meglio e con quali emissioni.

Insomma è una tecnologia da non sottovalutare ma non da propagandare ai quattro venti come la soluzione di tutti i mali. Va sperimentata senza ideologie preconcette, al pari delle altre prima citate non ancora mature a livello industriale, per capire se tra qualche anno possono avere un mercato e per quali tipologie di rifiuto.

La battaglia per ridurre gli spazi alle lobby dell’incenerimento non si fa andando alla ricerca dell’impiantino realizzato in qualche capannone industriale all’estero, né con gli allarmi lanciati sulle emissioni di microinquinanti come le diossine, che sono emesse non solo dagli inceneritori ma anche da altri impianti troppo spesso dimenticati come ad esempio quelli siderurgici.

Varrebbe la pena unire le forze per diffondere le buone pratiche di riduzione della produzione dei rifiuti, ancora poco numerose a dir la verità, e di raccolte differenziate domiciliari del sempre più corposo esercito dei Comuni ricicloni, premiati ogni anno da Legambiente, che sottraggono materia prima per i forni. Ma soprattutto occorre convincere il Parlamento italiano a modificare una volta per tutte le leggi che permettono agli impianti che bruciano la parte non biodegradabile dei rifiuti di poter beneficiare degli stessi sussidi economici che la direttiva europea sulle rinnovabili prevede solo per le fonti pulite.

Sovvenzioni che distorcono il mercato dei rifiuti e che garantiscono elevati profitti ai gestori degli inceneritori, pagati con il prelievo dalle bollette elettriche che noi consumatori vorremmo veder speso per le fonti energetiche meno mature che ne hanno più bisogno, come il solare fotovoltaico o l’eolico.

* Coordinatore scientifico di Legambiente

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