[07/11/2006] Energia

Falqui: lo slogan «Pensare globalmente e agire localmente» va rovesciato

LIVORNO. Dalla dodicesima conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici in corso in questi giorni a Nairobi ci si può aspettare molto oppure pochissimo: sfilza di numeri e percentuali snocciolati come obiettivi rischiano di far solo bella mostra di sé mentre tutti fanno il conto alla rovescia dei giorni che mancano alle prossime elezioni americane e all’auspicato tramonto dell’era di Bush, che non aderendo al protocollo di Kyoto ne ha praticamente dichiarato l’insuccesso, con le sue tonnellate di CO2 prodotte in Usa che rappresentano un terzo di quelle dell’intero pianeta, senza ignorare la giustificazione che gli Stati Uniti rappresentano di fronte a Cina India e Australia, gli altri grandi inquinatori che finora hanno snobbato Kyoto.

Allora proviamo a leggere da Nairobi i segnali positivi che pure arrivano negli ultimi anni: il legame clima-ambiente-energia è intanto ormai più o meno assodato da tutti, così come il binomio ecologia-economia comincia anche a far breccia tra gli economisti, come dimostra il recente rapporto elaborato dal consigliere di Blair, pur contemplando come alternativa un rilancio del nucleare. Quello che cambia sono appunto le soluzioni e ancor prima la volontà di cercare queste soluzioni. Lo sa bene uno dei padri storici dell’ambientalismo italiano, Enrico Falqui, al quale abbiamo chiesto una riflessione sullo scenario che stiamo affrontando.

«Le condizioni geopolitiche in cui oggi il mondo è diviso, rendono oggi la questione ambientale una questione decisiva, perché mentre noi siamo stati abituati nel secolo scorso a orientare non solo le politiche degli stati nazionali, ma anche le ideologie, alla grande questione est-ovest, oggi la grande questione del secolo appena iniziato è quella nord-sud , sollevata (e inascoltata) già nel 1978 dalla coraggiosa norvegese Gro Harlem Brundtland ».

Che cosa cambia con questa nuova ottica?
«Nel rapporto nord-sud c’è la chiave ma anche la spiegazione di come andrà trasformandosi l’assetto geopolitico mondiale: se Kyoto ha rappresentato un insuccesso nel momento in cui si disgregava la contrapposizione ideologico-politico-militare est-ovest, come si può pensare di raggiungere politiche efficaci per il nostro pianeta quando è appena decollata la questione chiave nord-sud?».

Quindi secondo lei non solo il protocollo di Kyoto è stato un insuccesso, ma oggi deve essere anche completamente rivisto nelle sue concezioni di base?
«Il protocollo all’epoca fu considerato un parziale insuccesso e da un punto di vista ecologico era assolutamente un insuccesso, ma era anche il compromesso massimo possibile nel momento in cui si disfaceva la questione est-ovest. Nel 1989 scompare quell’assetto geopolitico e ne inizia uno nuovo, tanto che oggi noi discutiamo di terrorismo, ma in realtà parliamo di rapporto tra nord e sud del mondo. Non è una guerra di civiltà come parla qualche teocon, in realtà c’è questa contrapposizione di interessi tra pochi paesi ricchi che detengono la maggior parte delle risorse energetiche e del pianeta. Se a questo tenebroso scenario, aggiungiamo che paesi emergenti come Cina e India aspirano a consumare enormi quantità di energia e di materie prime, mi chiedo come si possa immaginare di raggiungere la salvezza…. qui non esiste il tavolo dei volenterosi, sarebbe auspicabile, ma le condizioni geopolitiche non lo permettono. Per questo la crisi ambientale diventa strategica e ci costringe tutti, ricchi e poveri, a prenderne atto».

Non è molto ottimista sul futuro del pianeta, ma possiamo fare ancora qualcosa?
«Sì, sono abbastanza pessimista, ma realistico. Cosa possiamo fare? Intanto aggiornarci: lo slogan “Pensare globalmente e agire localmente” appartiene ormai al secolo scorso, adesso invece lo slogano più idoneo è “Pensare localmente e agire globalmente”, qui si gioca la partita».

Come dire che se Usa, Cina, India e Australia non cominciano almeno a pensare sostenibile tutto è inutile?
«Ogni milligrammo in più che c’è di ecologia va bene, ma non è questo che sposta il processo di riequilibrio ecologico e di redistribuzione delle risorse tra i vari popoli del mondo».

Quali strumenti abbiamo allora per invertire la tendenza?
«La questione di un assetto pacifico del nostro pianeta passa attraverso una carta internazionale di cooperazione tra i popoli. La Carta della terra, quella dovrebbe diventare per esempio lo statuto fondante di una nuova Onu dei popoli. La riforma di questa importante associazione dei popoli del mondo nata nel 1946 per scongiurare la barbarie della guerra non può passare solo dalla riorganizzazione dei poteri tra esecutivo e assemblea dell’Onu».

Quindi è sbagliato chiedersi localmente, per esempio qui in Toscana, cosa possiamo fare?
«E’ un errore di molti ambientalisti continuare a ragionare da 900, giudicando cosa si fa e cosa non si fa in una regione o in una città. In un mondo in cui l’energia viaggia libera superando vecchie barriere (anche se un fiume e una nave di passaggio hanno mandato in black out mezza Europa…, ndr) si figuri se la questione energetica è di competenza Toscana. La verità è che mentre noi facciamo bilanci effimeri e facili giochini, la Germania e la Danimarca usano i sistemi solari attivi e passivi raggiungendo una percentuale di energia elettrica pari al 30% della produzione, e creano un indotto enorme nel campo delle costruzioni, della teconologia, del lavoro. Qui c’è solo da rimboccarsi le maniche, inutile criticare le regioni, piuttosto diamoci davvero da fare».

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