[24/02/2006] Consumo

Mattioli a greenreport: «Sostenibilità è ben vivere collettivo»

Continua il viaggio-dibattito di greenreport sui consumi degli italiani e sul tema della crescita/decrescita. Ne parliamo con Gianni Mattioli (nella foto), ambientalista e docente di Fisica all´Università La Sapienza di Roma.
In tutto il mondo, e quindi anche in Italia, destra e sinistra si confrontano su come accelerare la crescita economica. Le differenze, quando ci sono, stanno nei modi e negli strumenti con i quali perseguire la crescita. Lei cosa ne pensa?
«Mi pare che per quello che riguarda il centrodestra non mi sembra che ci siano dei grandi punti di riferimento o grandi esperti: si sentono solo discorsi grossolani, come l’ingenua promessa che riducendo le tasse si aumenta la liquidità e quindi i consumi e di conseguenza l’economia italiana riprenda a pompare. Ecco, questa ricetta ha già dato i suo inesistenti e pessimi frutti.
Per quanto riguarda l’Unione, invece, mi pare che l’idea di una necessità del rilancio di attività produttiva e consumi sia largamente dominante, col postulato che basti aumentare le risorse alla ricerca scientifica per avere più innovazione tecnologica e quindi competitività. Anche questa ricetta è piuttosto illusoria, basta vedere il contesto: oggi nel mondo imprenditoriale c’è un’esasperata competizione, basata sull’uso dell’informazione tecnologica per aumentare produzione e innovazione di prodotto che rende subito obsoleti i beni. Quindi pensare che la ricerca italiana arrivi per ultima e vinca questa rincorsa mi sembra altrettanto ingenuo. Forse questa ricetta potrebbe funzionare solo se mirata ad alcuni settori. Riprendo l´ ammaestramento di Delors per dire che è sbagliato continuare a puntare alla produzione di beni per consumi individuali (macchine, tv, golf), ma che bisognerebbe rivolgersi verso produzioni del “ben vivere collettivo” (ad esempio riqualificazione urbana, energie pulite, difesa suolo, agricoltura multifunzionale). In questi campi oltretutto l’Italia può vantare eccellenze professionali notevoli, e non avrebbe neppure la tanto temuta concorrenza cinese o rumena che c’è in tutti gli altri settori».

Ultimamente una parte della sinistra mette in discussione sia il concetto che la prassi della crescita, Massimo Scalia giudica fatuo e datato questo dibattito, almeno da quando gli ambientalisti hanno cercato di introdurre in economia le leggi della termodinamica. Lei è d´accordo?
«Effettivamente io resto un po’ sorpreso da tutto questo parlare che se ne fa oggi, perché quello della decrescita era un dibattito molto vivace agli inizi anni 80, mi ricordo per esempio un congresso di Legambiente a Urbino interamente dedicato a questo argomento.
In generale però io ritengo che oggi non sia interessante il crescere o il decrescere dell’economia, ma piuttosto in quale direzione si voglia crescere. Crescere nelle produzioni quantitative di beni è una prospettiva drammatica e una scelta sciagurata che confligge con lo sconvolgimento climatico, con il sanguinoso esaurimento delle risorse. Mentre invece la crescita quantitativa di beni del “ben vivere collettivo” non mette in discussione il santino dell’impresa e del mercato così caro sia a destra che a sinistra: anche perché tutte le iniziative imprenditoriali volte al “ben vivere collettivo” hanno un corrispettivo di Pil crescente, che per quanto grossolano che sia è l’indicatore su cui oggi ruota tutto»

Qualche anno fa si pensava che con l’avvento della società e dell’economia dell’informazione ci stessimo avviando verso una “dematerializzazione” delle produzioni e dei consumi e quindi, inerzialmente, verso la sostenibilità ambientale. Non crede che qualità ed innovazione siano insufficienti a conferire una concreta sostenibilità ambientale all´economia basata sulla crescita?
«Anche in questo caso il problema è di nuovo posto all’interno di uno schema molto tradizionale. Se lei pensa alle produzioni come agricoltura o riqualificazione urbana, lì ci sono vere e proprie produzioni materiali con attività nell’industria manifatturiera e non nell’economia della conoscenza. Settori che se sviluppati porterebbero ad una crescita dell’economia volta al “ben vivere collettivo”. Personalmente non mi arruolerei mai nelle schematizzazioni che non a caso non provengono dalla cultura della sostenibilità e dell’ambientalismo, bensì dalle culture economiche che pensano di poter andare avanti solo con qualche ritocco senza ridisegnare l’assetto complessivo del sistema economico.

L’argomento utilizzato dai sostenitori ad oltranza della crescita economica illimitata, anche di qualità, è che altrimenti non ci sarebbero risorse da redistribuire e di ciò ne soffrirebbero i più deboli e i meno abbienti. Lei non crede che sia proprio questo il pericolo?
«Queste sono contraddizioni vere, perché a fronte di alcuni miliardi di uomini che godono appena marginalmente di alcune condizioni che per noi sono abitudini, è difficile pensare che a questi si possa rispondere con l’economia della conoscenza e non con produzioni materiali. L’economia della conoscenza è una formula astratta difficilmente adattabile a chi oggi non ha garantiti i bisogni fondamentali. Per questo è necessaria una riconsiderazione globale dei processi produttivi, abbandonando l’ottica del consumare a tutti i costi, per privilegiare quella del ben vivere collettivo.
Ma anche nei nostri paesi avanzati c’è un problema di redistribuzione. Soprattutto le fasce sociali più deboli hanno grande bisogno di tutto un insieme di produzioni del buon vivere: penso a una sanità funzionante, a città praticabili, ai servizi scolastici… Io credo che solo attraverso una fiscalità che prelevi a fasce sociali più abbienti - come previsto dalla nostra costituzione – sia possibile utilizzare risorse per restituire alle fasce sociali più deboli le produzioni del ben vivere collettivo, assicurando condizioni di vita più etiche e sostenibili».

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