[28/05/2007] Recensioni

La Recensione. Le rivoluzioni industriali di Stefano Battilossi

Non è certo una novità che il concetto e la pratica di progresso economico moderno sia unanimemente fatto risalire alla fine del XVIII° secolo e all’inizio del processo di industrializzazione allora affermatosi in Inghilterra. Questa idea e questa pratica di progresso, che ancora contraddistingue la nostra epoca, è stata caratterizzata sostanzialmente dall’aumento continuo della crescita economica, che ha a sua volta garantito l’aumento del reddito medio pro capite, attraverso “l’imitazione, la competizione e l’emulazione tra Paesi”. L’autore illustra le fasi in cui, a partire appunto dell’Inghilterra, lo sviluppo si propagò in Germania e poi negli Usa, fino ad arrivare all’industrializzazione accelerata dei paesi asiatici.

In buona sostanza, a partire dal XIX° secolo l’esperienza storica dei paesi occidentali ( ed oggi anche dei paesi asiatici) è stata caratterizzata da un aumento ininterrotto del prelievo delle materie prime trasformate in un altrettanto aumento ininterrotto della quantità e della varietà di prodotti.
L’autore ricorda (e concorda) che il concetto di crescita a cui si riferiscono gli economisti riguarda proprio questi aspetti quantitativi. E’ vero che viene sottolineato che il Pil ( prodotto interno lordo), che è l’indicatore che misura questa crescita, “rappresenta un’astrazione statistica che nulla dice sulla distribuzione del reddito e dunque sulla disuguaglianza”, ma è anche vero che, ancora oggi, come dimostra l’autore, il Pil è inteso come “misura sintetica della capacità produttiva e del livello di benessere complessivo raggiunto da un sistema economico”.
E qui casca l’asino.

Le interessanti tabelle riportate nel libro che prendono a riferimento il 1820 e il 1870 (che pure si fermano ad una fotografia relativa al 1998, ovvero a circa dieci anni fa) e che illustrano l’andamento del Pil pro capite nelle diverse aree geografiche (Europa occidentale; Europa orientale; America del nord e Oceania; America latina e Asia) dimostrano come con accelerazioni diverse, salvo la Russia negli anni ’90 e la Cina negli anni ’50, la crescita quantitativa della produzione è stata ininterrotta. E’ significativo che non venga presa in considerazione l’Africa. Evidentemente li c’èra da misurare poco, se non l’aumento popolazione e della povertà.
Ma la cosa interessante non deriva tanto dalle performances delle diverse economie nelle diverse fasi storiche, bensì dalla comparazione delle distanze che, ancora nel 1998, erano presenti fra queste economie.

Fatto 100 ad esempio il Pil pro capite degli Usa nel 1870, quello dell’Inghilterra era 130,5, quello dell’Italia 61,3, quello del Giappone 30,1, quello dell’India 21,8, quello della Cina 21,7.
Senza riportare qui le progressioni, basta dire in che rapporto stava nel 1998 la produzione del Pil pro capite fra gli stessi Paesi, sempre fatto 100 quello degli Usa: 68,5 quello dell’Inghilterra; 65,1 quello dell’Italia; 74,7 quello del Giappone; 6,4 quello dell’India e 11,4 quello della Cina.
Ovvero, quando si parla dell’esplosione percentuale del Pil delle cosiddette tigri asiatiche, che viaggia sulle due cifre annue, si dimentica un piccolo particolare: che la distanza fra il Pil pro capite di questi Paesi e quelli occidentali è ancora abissale.

E dunque uno storico delle innovazioni tecnologiche, come Nathan Rosenberg, può certamente affermare che “l’importanza storica del progresso tecnico dal punto di vista del benessere umano consista non soltanto nella possibilità di produrre un volume maggiore di beni a costi inferiori, ma soprattutto nell’immenso numero di prodotti nuovi che le innovazioni hanno reso possibili”, ma a questo punto della storia dell’economia e della crescita economica, come è oramai ampissimamente riconosciuto, l’interrogativo impellente è diventato un altro: quanto può durare?

E’ possibile continuare a misurare il progresso e lo sviluppo con quel metro (la crescita della produzione e dei prodotti)? E’ possibile che gli Usa e i Paesi occidentali continuino la loro corsa inseguiti da Cina e India (oltre due miliardi e mezzo di popolazione) che ambiscono ad arrivarli ( e anche con l’Africa che è in condizioni di disastrosa indigenza)?

E’ certamente vero che “vari studi econometrici... hanno dimostrato che soltanto una quota minoritaria della crescita può essere ricondotta al contributo fornito dai vari fattori di produzione... e che una parte larghissimamente maggioritaria trova una spiegazione nella produttività che indica il livello di efficienza con cui i fattori di produzione vengono combinati” ma ciò non toglie che la curva ideale ( e sostanziale) dei flussi di materia non sia stata, e non sia, costantemente in ascesa. Il guru Rifkyn ha un bel raccontare la tendenziale dematerializzazione dell’economia (che c’è), se a ciò non aggiunge che tale dematerializzazione riguarda la singola unità di prodotto in un contesto però, di incessante aumento complessivo dei volumi.

E dunque, se la prima rivoluzione industriale può essere identificata come l’epoca del cotone e del ferro, del vapore e delle ferrovie, dell’affermazione del sistema fabbrica e dell’imprenditore individuale; se la seconda rivoluzione industriale può essere identificata con l’epoca della elettricità e dell’acciaio, della chimica e dell’automobile, della produzione standardizzata su grande scala e del capitalismo manageriale; se la terza rivoluzione industriale, infine, è segnata si dall’ondata di innovazioni emerse nel campo dell’elettronica, dell’informatica e delle tecnologie di comunicazione ( tanto da essere stata definita da Castells economia informazionale) ma comunque sempre vocata alla massima crescita economica possibile; tutte e tre queste rivoluzioni hanno comunque alla base una costante: l’aumento dei prelievi di materia prima e l’aumento di prodotti materiali da immettere sul mercato globale.

Ed è esattamente questo che il mondo intero non si può più permettere. Soprattutto se si considerano le distanze siderali che ancora esistono fra il quinto di popolazione mondiale che ha raggiunto livelli di consumo parossistici e il resto della popolazione che (sia pure in termini diversi) deve ancora raggiungere soglie di qualità della vita accettabili.
Il recente rapporto dell’Ipcc ha dimostrato perfino che continuando con questo modello produttivo e di consumi si sta esattamente segando il ramo proprio del totem della crescita.
Dunque, se l’insostenibilità sociale di questa crescita fa solo piangere lacrime ipocrite, non ci sono comunque alternative ad una quarta rivoluzione: quella contraddistinta dalla necessità di ricondurre i flussi di energia e quelli di materia entro i limiti di sopportabilità del pianeta. Ed è certo che questa quarta rivoluzione la può (e la deve) compiere proprio l’industria.

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