[29/05/2007] Urbanistica

«Leggi per fermare l´espansione infinita e inaudita delle periferie»

LIVORNO. Recuperare le periferie urbane, ricostruendo e riunendo in un’unica città quei quartieri spesso dormitorio alienati rispetto ai centri storici. Ora è il momento delle periferie, sembrava dire Renzo Piano, parlando con i giornalisti in occasione dell’inaugurazione della sua mostra “Le città visibili” alla Triennale di Milano. «Credo nell’idea della crescita sostenibile della città – diceva l’architetto famoso in tutto il mondo - mi interessa lavorare sull’urbanizzazione delle periferie» che devono tornare ad unirsi alla città seguendo la trama del verde e dell’ambiente.

Intanto però mentre a livello planetario gli abitanti delle città operano il sorpasso storico sugli abitanti delle campagne, in Italia come in tutto il mondo sviluppato, si assiste ad una fuga dalle città e dalle periferie per trovare rifugio in borghi poco distanti.

Per leggere la situazione attuale abbiamo chiesto aiuto all’architetto Vezio De Lucia, al quale chiediamo di partire proprio dal concetto di periferia.
«In Italia abbiamo avuto un’espansione delle periferie che ha raggiunto livelli senza confronti: oggi lo spazio urbano che utilizziamo è stato costruito per il 90% dopo la seconda guerra mondiale col risultato di avere periferie sterminate. Il fenomeno in misura ridotta è avvenuto anche in altri Paesi europei, ma la cosa grave è che mentre Germania, Francia, Inghilterra negli ultimi 10-15 anni hanno attuato politiche rigorose e centralizzate volte a contenere il consumo del suolo e ad orientarsi verso il recupero delle aree dimesse, in Italia le periferie continua a ingrandirsi».

Cos’è mancato quindi all’Italia?
«Prima di tutto cosa manca anche oggi: regole e leggi cogenti per impedire questa espansione delle periferie che appare infinita, indeterminata, inaudita. Di questo, anche nel programma del governo Prodi, ci sarà si e no mezza riga, ma in ogni caso finora la questione urbana è stata totalmente ininfluente nelle scelte politiche ambientali. Non dico che si faccia male a occuparsi del protocollo di Kyoto, ma bisognerebbe rendersi conto che spesso alcune scelte urbanistiche possono influire sull’inquinamento molto più di altre iniziative».

In che senso?
«Per esempio proprio una periferia progettata male comporta oltre al consumo di suolo, anche spreco di risorse idriche, o energetiche. Ma anche inquinamento dell’aria provocato dal traffico in entrata e in uscita, soprattutto negli orari scanditi dai ritmi di lavoro».

Cosa deve fare quindi l’Italia?
«Semplicemente, prima di pensare a riprogettare le periferie dovrebbe smettere di aggiungere nuove periferie alle vecchie. Io posso anche fare un intero quartiere con la bioedilizia e con la bioarchitettura, ma l’urbanistica viene prima della sostenibilità, bisogna recuperare tutto quello che si può recuperare, gli spazi dimessi all’interno delle città sono moltissimi: aree industriali, di servizi, ferroviari.. Serve quindi una riflessione generale, perché è vero che non tutta l’Italia è allo stesso punto, però anche la Toscana che ha una legge urbanistica buona, sconta qua e là casi limite, anche se non paragonabili alle periferie di Roma o Napoli».

Perché la legge urbanistica toscana è buona?
«La legge toscana dice che è consentito urbanizzare spazi aperti a condizione che sia dimostrata l’impossibilità di risolvere diversamente quell’intervento. La legge è limpidissima, anche se bisogna essere onesti e ammettere che poi l’attuazione pratica talvolta non è altrettanto limpida. Non viene rispettata da tutti perché forse in Toscana c’è questa fiducia acritica nell’autonomia locale e qualcuno se ne approfitta. Diciamo che oltre a prescrivere obblighi, che già in Toscana ci sono e che dovrebbero essere estesi a tutto il Paese, bisognerebbe anche investire sulla formazione culturale degli enti pubblici».

Le case però si continuano a fare, anche in periferia , perché il mercato (chi ha soldi da spendere) lo chiede.
«Certo, ma non può essere solo il mercato che regola il futuro. L’interesse collettivo deve prevalere e contenere al proprio interno il mercato. Altrimenti ci ritroveremmo di fronte all’urbanistica come a una continua contrattazione di interesse pubblici e privati. Questa filosofia, che è quella che ha disegnato gran parte delle periferie milanesi, va respinta in ogni modo, va invece ridato il suo ruolo al pubblico, che indirizzi l’urbanistica con strumenti finalmente cogenti».

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