[01/03/2006] Consumo

Rossana Rossanda a greenreport: «L’ambientalismo non può essere illuminismo»

ROMA. Il dibattito su crescita, sostenibilità e consumi continua con una intervista a Rossana Rossanda (nella foto insieme a Luigi Pintor), celebre giornalista e saggista, fra gli intellettuali più vivaci del nostro tempo.
Nel suo bellissimo libro «La ragazza del secolo scorso» la contraddizione fra capitale e lavoro è sottesa, quanto presente, alla sua vicenda e a quella del Pci. Quando afferma che «non si arrende alla vulgata per la quale senza la spinta dell’impresa al profitto non c´è democrazia» intende anche dire il contrario? Cioè, intende dire che la democrazia, quella senza aggettivi, pretende l´assenza dell´impresa e del profitto?
«Una democrazia senza aggettivi – potere di tutto il popolo – non c’è mai stata, salvo nei consigli, limitati nel luogo e nel tempo. Marx pensava che potesse darsi con il comunismo, che non è certo all’ordine del giorno. All’ordine del giorno è la crisi e marcescenza delle democrazie in occidente: crescita di forme autoritarie, fastidio per la divisione dei poteri, lesione dei diritti politici fondamentali, personalismo, astensionismo sempre in vista. Perché questo avviene? Penso, come Mario Tronti, per un sopravvento dell’economico con le sue presunte “leggi” sulla sfera politica. Queste “leggi”, come la logica di impresa o del mercato sono indifferenti ai beni comuni, come l’ambiente, perché non hanno, appunto in quanto comuni, natura di scambio, non si possono vendere e comprare. Non è la malvagità d’un padrone ma la logica d’impresa accumulare capitale vendendo e comprando, competendo per costi minori a brevissimo termine, senza guardare in faccia ai danni che possono produrre, inclusi i danni umani sui lavoratori che il loro ideale è pagare fin che servono e licenziare quando non servono. Anche a costo di danneggiare il mercato interno, formato dalla loro possibilità di spendere un salario.
Nei “trenta gloriosi” in Europa e in America, Roosevelt, Beveridge, Keynes, che non erano affatto socialisti, se ne resero conto e capirono che il conflitto fra chi detiene proprietà e mezzi di produzione e chi non ha che la sua forza di lavoro da vendere al prezzo massimo possibile, è un elemento di equilibrio. La sfera politica deve garantirlo e provvedere ai bisogni primari senza i quali il salariato e l’insieme dei cittadini non riescono a vivere né tanto meno a spendere. Si tratta di una regolamentazione del capitale, non di una sua abolizione (e per questo è stata molto criticata da sinistra, senza che questa sia riuscita ad opporvi un sistema alternativo vincente). E infatti nei trent’anni di quel che chiamiamo keynesismo la popolazione è triplicata, la speranza di vita cresciuta ed è diminuita la povertà in termini assoluti.
Dopo il 1989, ma già dalla Trilaterale del 1977 e la crisi dell’energia, il liberismo, sinistre incluse, è tornato a imperare, mira a chiudere con il conflitto, favoleggia del mercato come unico equilibratore, permette a capitale e impresa di collocarsi dove il lavoro costa meno e di concorrere senza limiti, privatizza a più non posso i beni pubblici. E saccheggia le risorse naturali.
Se non si inverte la tendenza liberista, sottoponendo capitale e impresa a priorità politiche, fra le quali i servizi e i beni comuni, non si salverà l’ambiente, bene comune per eccellenza».
Destra e sinistra, storicamente, si sono contraddistinte, l’una per perseguire una crescita economica con meno vincoli possibili per l’impresa e il mercato, l’altra per perseguire una crescita economica orientata secondo progetti e una più giusta redistribuzione della ricchezza. Sia per l’una che per l’altra, la crescita economica è stata (ed è) comunque un obiettivo indiscutibile e intoccabile: cosa pensa del fatto che, a sinistra, da qualche tempo comincia a essere messo in discussione sia il concetto che la prassi della crescita?
«Fin che ci sarà al mondo chi muore di fame, sete e mancanza di medicinali, finché un terzo della popolazione mondiale vivrà sotto la soglia di povertà, non si potrà sostenere il discorso di Latouche senza affrontare prioritariamente il “come” redistribuire quel che già il pianeta possiede. Finché ridurre la crescita sarà predicato senza il coraggio di aggiungere che questo significa togliere a molti (e i più potenti) per dare a tutti (non in via caritatevole ma di diritto), e questo presume e investe gli attuali poteri economici e politici, non sarà un discorso serio. Come è bello ma non serio divagare sulla felicità di popolazioni che non conoscono la bicicletta.
Ma quando mai l’ambientalismo non ha eluso questo scoglio? E’ come se fosse convinto che si tratta di convertire al buon senso, augurandosi che il sistema attuale si autocorregga. E’ davvero una ipotesi illuminista, come se fossimo di fronte a un mero dato di coscienza invece che a interessi consolidati. Così speriamo in una amministrazione americana che sostituisca Bush e sia abbastanza ragionevole da firmare il protocollo di Kyoto.
Questo fa sì che sono con voi ma non fra di voi, una ambientalista tout court.
La questione però non è stata affrontata, credo neppure vista, neanche al tempo dei partiti e dei paesi comunisti. Nei quali o si è redistribuita la miseria con costi sociali altissimi o si è rincorsa una crescita devastante. Va detto che nel sottosviluppo non è stato e non è tuttora un problema semplice da risolvere. Si comprende che quelle popolazioni si augurino di vivere come da noi e da noi cerchino di arrivare, perché quel che hanno al più gli basta per non morire, non per vivere. I guai della crescita non si vedono nell’Africa subsahariana, qualche economista a parte. E così non li hanno visti i paesi a regime comunista, e non li vede neppure l’Unione europea. Ho visto in Francia un solo film sovietico dei primi anni ’80 che li affrontava (evacuare una grande regione forestale per costruire le centrali di energia o mancare del tutto di energia) ma è rapidamente sparito dalle sale. In Cina nel 2005 lo stesso governo ammette che ci sono state migliaia di rivolte di contadini messi di fronte allo stesso aut-aut (e vi ha riposto a fucilate). Quanto a noi europei basta la vicenda del lago Vittoria (ma il film L’incubo di Darwin in Italia non è apparso) per capire i guai che combiniamo».
La messa in discussione, a sinistra, della crescita economica è basata su un assunto difficilmente contestabile: una crescita infinita (peraltro sommamente ingiusta come sappiamo) su un pianeta finito è fisicamente impossibile. Si potrebbero citare, al proposito, sia il Berlinguer del discorso all’Eliseo sull´austerità, sia Pintor con la metafora del limite anche per l´obesità. Cosa pensa al proposito?
«Questa domanda è una coda della precedente. Certo che l’intero pianeta non potrebbe consumare come gli Stati Uniti, e non per mancanza di spazio per le automobili, ma per intossicazione di gas, deforestazione e chissà mai diluvio universale, i disastri annunciati sono molti – una catastrofe ecologica che si verificherebbe ben prima che tutto il mondo fosse New York. Ma che gliene frega, scusate la parola, agli Stati uniti, all’Unione Europea e alle multinazionali in fibrillazione perpetua a brevissimo termine? Pensate che i padroni attuali del mondo, con il modello di consumi che hanno alimentato, si convertiranno come san Paolo sulla via di Damasco?
La globalizzazione non è un incidente di percorso e non bastano anche grandi manifestazioni a farvi fronte. Seattle ha prodotto soggettività ma non ha né fermato né rallentato l’Omc. Bisogna intervenire sui meccanismi proprietari e produttivi e come se non con una decisiva rifunzionalizzazione della politica, un suo risanamento ecologico? Perché i movimenti vi credono sempre meno? In un mondo diretto da meccanismi globali i movimenti tendono ad essere locali e autosufficienti, il non intendersi è fatale».
Sempre nel suo libro affronta la contraddizione femminile. Di quella ambientale non c´è quasi traccia. Che posto le assegnerebbe nel progetto per una sinistra del nuovo secolo?
«La contraddizione fra tipo di crescita e ambiente è stata vista da pochi, e fra quelli io non c’ero. Ma non mi si parli di contraddizione ambientale e fra i sessi come se fossero di natura simile. L’imposizione alle donne di varie subalternità appartiene ai secoli, è stata praticata dai più illustri amanti della natura e temo che anche il migliore degli ambientalisti ne porti traccia dentro di sé. Le identità sessuali mutano lentamente, anche in presenza di terremoti, come l’essere le donne uscite in massa da casa, entrate in massa nel lavoro, avere in parte del mondo messo le mani sul grilletto genetico. Si firmerà il protocollo di Kyoto prima che gli uomini cessino di picchiarle ed esse cessino di rassegnarvisi.
Diciamo la verità: anche questa domanda prova che l’ambientalismo si occupa più – almeno in questi suoi primi anni – della vita in generale che dei e delle viventi (come il Vaticano). E le donne, secolarmente confinate nel privato ed escluse dalla sfera pubblica, in maggioranza si interessano ancora più al loro giardino che all’effetto serra. E sono consumatrici efferate. Siamo in tempi di groviglio e frammentarietà».

Torna all'archivio