[18/06/2007] Monitor di Enrico Falqui

La transizione energetica

Alcuni anni fa, l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan aveva avvertito l’opinione pubblica mondiale che per molti paesi in via di sviluppo “l’onere del debito è destinato ad aumentare, se negli anni a venire l’aumento dei prezzi del petrolio provocherà una lievitazione dei tassi di interesse internazionali”. Già nel 1985, il debito del Terzo Mondo era superiore ai 1000 miliardi di dollari e, poiché la quasi totalità dei fondi ottenuta a prestito era utilizzata per acquisto di petrolio o per il pagamento di interessi, questa era la ragione per la quale il gap di sviluppo tra questi paesi e quelli occidentali andava aumentando. Alla fine del 1999, 47 paesi, con una popolazione complessiva di 1,2 miliardi di persone avevano un debito medio pro capite di 380 dollari, esattamente pari al Pil medio pro capite.

Queste cifre risultano ancora più drammatiche se si pensa che ancora la produzione di petrolio nel mondo non aveva raggiunto il picco; tuttavia, sono molto utili nello spiegare all’opinione pubblica mondiale perché tali paesi, in ogni Forum mondiale sullo sviluppo, richiedano con insistenza alle autorità monetarie internazionali erogatrici dei prestiti la cancellazione di un debito che impedisce loro qualsiasi tipo di sviluppo.

Nel 2004 la domanda di prodotti petroliferi aveva raggiunto gli 83 milioni di barili al giorno e le attuali stime prevedono un incremento della domanda a 97 milioni di barili nel 2015 , fino a raggiungere il tetto di 118 milioni di barili al giorno nel 2030. Tali stime prevedono inoltre che il prezzo dei prodotti petroliferi diminuirà dagli attuali 68 dollari a barile (2006) ai 49 dollari a barile nel 2014, fino ad attestarsi intorno ad un valore di 59 dollari al barile nel 2030.

L’aspetto significativo di queste previsioni è dato dal fatto che , nel periodo 2004-2030, la maggior parte di questi incrementi saranno assorbiti dai paesi asiatici in via di sviluppo , in particolare, Thailandia, Corea del sud, Cina e India, il cui Pil medio cresce ogni anno intorno al 5,8 – 6%.
Negli altri paesi occidentali il 70% degli incrementi della domanda dei prodotti petroliferi, nei prossimi anni, è connessa alle previsioni di un forte incremento della mobilità, soprattutto nelle grandi aree metropolitane in continua espansione.

Tuttavia se guardiamo con attenzione il frenetico sviluppo dei paesi asiatici, dove nei prossimi anni si concentrerà la maggiore richiesta di prodotti petroliferi, ci rendiamo conto con chiarezza che estese regioni metropolitane si stanno rapidamente formando in Asia meridionale e lungo le coste della Cina. Nell’arco di un paio di decenni (quanti ci separano dal 2030, anno del turning point petrolifero) le previsioni dell’Onu ci dicono che quasi metà della popolazione urbana globale si concentrerà in queste aree e Mumbai si sostituirà a Tokyo nel ruolo di città più grande del mondo entro il 2040.

Al momento Shanghai è una delle città a più rapida crescita nel mondo e Pechino si sta trasformando in modo radicale, in previsione delle Olimpiadi del 2008. Queste due città stanno cercando di integrare una popolazione fluttuante, immigrata dalle vastissime e lontane aree rurali delle due regioni di appartenenza, dell’ordine di circa 5 milioni di abitanti (una popolazione pari a tutto l’agglomerato metropolitano di Milano). In queste due città la quantità media di spazio pro-capite si è triplicata in poco più di un decennio, aumentando da meno di 4 metri a oltre 12 metri quadrati.
Secondo recenti stime dell’Agenzia per lo sviluppo dell’Onu, nelle economie sviluppate il consumo di energia è destinato agli edifici per oltre il 50% e ai trasporti per oltre il 25%.

Appare evidente che se le previsioni di incremento della domanda dei prodotti petroliferi sono corrette , l’infrastruttura energetica globale che utilizziamo non sarà in grado di conciliare al tempo stesso la riduzione delle emissioni responsabili dei mutamenti climatici e del riscaldamento terrestre con le previsioni di crescita delle economie dei paesi in via di sviluppo, con le previsioni di crescita delle metropoli globali e dell’urbanizzazione degli spazi rurali, con la cancellazione del debito dei paesi più poveri che aspirano a fuoriuscire dal circuito infernale della lotta per la sopravvivenza.

Questo è il drammatico dilemma che ha coinvolto tutti i rappresentanti dei paesi chiamati a ratificare il protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica: in quella sede, è almeno apparso evidente a tutti che l’infrastruttura energetica del petrolio, costruita nel corso del Novecento, non è più in grado di reggere a queste drammatiche sfide globali cui sono chiamati a rispondere, con diverse responsabilità e potenzialità di intervento, tutti i popoli della Terra.

Oggi appare evidente alle intelligenze anche di alcuni potenti della Terra (Al Gore, Chirac, Mandela, Lula) che è la natura stessa dell’energia (il petrolio) che ne ha determinato una complessità oggi difficile da governare, senza ricorrere all’uso della forza militare.

Il petrolio è infatti diffuso in modo non uniforme, difficile da estrarre, costoso da trasportare, complicato da raffinare,crea notevoli problemi di inquinamento e di rischio, è utilizzabile in migliaia di modi diversi; per questo esso richiede una struttura di comando e di controllo altamente gerarchizzata per il finanziamento dell’esplorazione e della produzione e per il coordinamento del flusso a valle, verso gli utenti finali.

Proprio a causa di questa complessità di produzione e d’uso, il petrolio ha giustificato enormi concentrazioni del potere economico e commerciale nelle mani di poche aziende, le quali controllano di fatto una quota sempre maggiore dell’economia internazionale.

Basta pensare che, nel 2004, tra i primi cento operatori economici mondiali solo 49 sono Stati mentre 51 sono società private e la somma del Pil di tutti i paesi, esclusi i primi dieci più industrializzati, è inferiore al fatturato complessivo delle duecento maggiori aziende del mondo.

Nel frattempo, dal 2003 al 2004, le emissioni di anidride carbonica sono aumentate nei paesi in via di sviluppo di circa il 10% (causato soprattutto dal frenetico sviluppo dei paesi asiatici, i quali hanno contribuito per il 27% del totale dell’incremento), e, per la prima volta nella storia recente, la somma totale delle emissioni prodotte in tutti i paesi in via di sviluppo ha superato quella prodotta dai paesi sviluppati.

Le stime dell’Agenzia dello sviluppo dell’Onu ci dicono anche che le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’uso di prodotti petroliferi contribuiscono per il 40% al quantitativo globale di emissioni trasferite in atmosfera, contro il 21% derivante dalle emissioni prodotte dalla combustione del gas e il 39 % derivante dall’uso del carbone.

Queste cifre, così chiare e nette, ci dicono che la sopravvivenza del nostro pianeta coinvolge tutti: in primo luogo, l’Occidente che deve voler e saper sostituire un’infrastruttura energetica globale fondata sul petrolio, indirizzando le scelte dei loro governi verso un’economia fondata sull’idrogeno e sulle energie rinnovabili.

Un maggior consumo di energia ha sempre corrisposto ad una maggior entropia nell’ambiente generale; ce ne accorgiamo bene se risaliamo la curva a campana della produzione petrolifera globale , nella quale ci siamo concentrati sulla massimizzazione dei benefici e dei profitti.

Oggi, in prossimità dell’imminente picco della produzione petrolifera globale, dobbiamo prestare altrettanta attenzione a minimizzare le perdite e avviare la più importante transizione energetica che l’epoca moderna abbia mai conosciuto.

Lo “status“ che assegneremo, nei prossimi anni, all’utilizzo dell’idrogeno e delle energie rinnovabili nello sviluppo dell’economia e delle città nei paesi ricchi e più industrializzati, avrà una ricaduta decisiva anche sui modelli crescita economica e urbana dei paesi in via di sviluppo.

Tutto dipende dal “valore” che attribuiremo loro, nel corso di questa transizione energetica; se cioè le considereremo “risorse condivise“ (beni comuni) oppure se le considereremo “merci“, oppure una via di mezzo, adottando il criterio della sostenibilità dello sviluppo come criterio guida delle scelte di pianificazione globale e locale.

Barry Commoner, nel mio ultimo colloquio avuto con lui, mi colpì quando esclamò “Kyoto, è il debito che ci presenta la Natura e che dobbiamo pagare tutti, ma il vero problema è il debito che abbiamo con le future generazioni, quelle che nasceranno tra oggi e il 2030”. Aveva ragione lui, c’è poco tempo per costruire una rete energetica decentralizzata e democratizzata che prometta un futuro ecologico ed equo agli abitanti dell’unico pianeta in cui abitiamo.

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