[02/07/2007] Recensioni

La Recensione. Elogio del lusso di Thierry Paquot

Qui, ogni tanto s’alza qualcuno e stabilisce cosa si deve fare per stare bene. E magari le indicazioni sono anche condivisibili da qualcuno o da più d’uno ma, il problema è come gira (e perché e per chi) il mondo. E se questo modo di girare può essere sostenuto socialmente e ambientalmente. E se no, come fare a fargli cambiare giro?

Sarà anche «giunto il momento di rendere onore a tre valori decisivi nella realizzazione del piacere di vivere: il tempo, il silenzio e l’immensità», ma bisogna vedere per chi e per quanti (e dove). Visto che nonostante i fiumi d’inchiostro e le arricciate di naso «lo shopping è diventato (addirittura) uno dei pochi mezzi rimasti per confrontarci con la vita collettiva. Nella gran parte dei casi determina, sostiene e spesso definisce quello che rappresenta una istituzione o l’identità di una città. Lo shopping ha creato una forma diffusa di unità fra entità apparentemente distinte ed è diventato un fatto ineluttabile della vita pubblica».
Anzi, lo shopping «resta indiscutibilmente l’ultima forma di attività pubblica».

E infatti è l’autore che sottolinea che l’attività umana è sempre più incantata, intrisa e invasa dallo shopping. L’urbanesimo stesso dipende totalmente dagli itinerari (e dai tempi) dei clienti e di conseguenza dai loro spostamenti, ai quali si risale attraverso le loro carte di credito oppure la richiesta di una gentile informazione sul proprio cap.

E allora?
Allora le disquisizioni su cosa è il lusso e sulle sue diverse interpretazioni nei diversi luoghi e nei diversi ceti; sul lusso antico e il lusso nuovo; sulla distinzione fra benessere e felicità; sul lusso “interno” e il lusso “esterno” (Fourier); sul lusso di massa e sul capriccio; sull’otium e sul neg-otium; sui bisogni primari e quelli secondari; quelli necessari e quelli superflui, il nodo da sciogliere non sta nel monitorare le preferenze e/o le possibilità. E neanche nella presa d’atto che l’industria ufficiale (sommata a quella delle imitazioni delle griffe) genera migliaia di posti di lavoro (che difficilmente si guadagnerebbero la pagnotta con il tempo, il silenzio e l’immensità) e raggiunge milioni di consumatori; e che quello che un tempo riguardava una ristretta elite oggi interessa le masse (e quando si guarda a “Cindia” i numeri delle masse si fanno imponenti).

Il nodo vero sta nel fatto che, nell’era dell’economia della conoscenza e della dematerializzazione, dei servizi che compongono il Pil per il 70/80% e, quindi, di una industria che, almeno nel vecchio occidente, occupa sempre meno lavoratori e concorre sempre meno alla composizione del Pil; nonostante tutto ciò, in questa economia globalizzata e in tutte le aree (eccetto la disperata Africa) il fine ultimo di questa frenesia è produrre e vendere beni materiali.

Anche attraverso la vendita di beni immateriali (dai concerti ai film, dalle consulenze ai format televisivi) il fiume da alimentare incessantemente è la produzione e la vendita di beni materiali, fisici.

Vogliamo dare un taglio a questa giugulatoria ideologica e modaiola della presunta dematerializzazione dell’economia in atto? Bene, si osservino le quotazioni di borsa delle società di commodities! Vogliamo vedere se le previsioni del guru Rifkin si stanno avverando? Bene, si guardino i listini delle materie prime (e per soprammercato, già che ci siamo, verifichiamo che fine hanno fatto le sue predizioni sulla “fine del lavoro”).

Non c’è alcun dubbio, almeno per chi scrive (molto meno per quel miliarduzzo di persone che vive con meno di due dollari al giorno) che «la nostra società è caratterizzata volente o nolente dai consumi e che uccide il lusso identificandolo con i beni materiali e immateriali che il mercato considera lussuosi» (anche se il lusso, attraverso la moda, è una linea continuamente mobile).
Non c’è alcun dubbio, almeno per chi scrive, che «questo lusso di massa, questo lusso di marche, questo lusso democratizzato tende a far scomparire il lusso vissuto e le sue emanazioni nell’ambito extraeconomico».
Il dubbio invece arriva (eccome se arriva!) quando l’autore afferma che la «nostra società deve riconsiderare la questione del lusso e lussare di più le nostre esistenze, renderle più euforiche. Un rinnovamento del lusso sarebbe salutare per modificare le modalità del consumo».
“Deve riconsiderare... per modificare...». Il punto è: chi e come?
Un grande della storia ebbe ad affermare che «esistono schiere di filosofi che hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo».

Chi c’ha provato una volta è stato drammaticamente sconfitto ma è proprio certo che si possa vincere decidendo che non c’è da cambiare proprio nulla perchè «le dinamiche autonome dell’economia e del mercato debbano essere lasciate libere»? E dunque al come? non c’è risposta se le comunità locali e la comunità globale non riprende a progettare il suo futuro a partire dalla necessità di rendere sostenibili sia i rapporti di produzione che la produzione stessa.

Nelle diverse forme con cui questi due nodi si presentano nelle diverse aree del mondo; nelle diverse forme con cui si potrà affermare un nuovo agire collettivo che pure tenga di conto che l’epicentro della modernità è l’individualizzazione della/e società; alla questione delle questioni non si sfugge: continuando così si va a sbattere! Anche se nel frattempo qualcuno si sarà conquistato »il tempo, il silenzio e l’immensità»!

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