[04/07/2007] Consumo

Crescita e decrescita: i cattivi esempi

LIVORNO. Fra i punti sollevati nel mio precedente intervento su crescita e decrescita sottolineavo il fatto che la distribuzione della crescita (della decrescita) modifica l’impatto anbientale di un medesimo dato economico aggregato. Due per cento in più o in meno di crescita può voler dire tutto e niente sul piano dell’impatto ambientale a seconda del modello distributivo prevalente. Alcuni casi storici ci possono aiutare a capire meglio il punto. Si possono distinguere a questo proposito due modelli. Un modello di crescita diseguale (iniquamente distribuita) e a (più) forte impatto ambientale, e un modello di crescita egualitaria a (più) limitato impatto ambientale. In questo intervento ragionerò sul primo modello.

Il modello a crescita diseguale e a più forte impatto ambientale ha caratterizato negli anni più recenti paesi come Brasile, Sud Corea, Messico, Colombia, India, Cina, ecc; intorno agli anni ’50 e ’60, il nostro paese è stato un esempio di questo modello. Dal momento che riguarda la gran parte dell’umanita’ occorre parlarne. Esso si distingue per le seguenti caratteristiche:

a) la struttura della produzione evolve in modo regolare, muovendosi dall’agricoltura e dalla manifattura di beni “semplici” come i prodotti alimentari e tessili verso importanti beni intermedi (chimica e informatica) e beni finali come elettrodomestici e automobili (e ancora informatica). Per un certo periodo i tassi di risparmio e di crescita aumentano, per poi stabilizarsi verso livelli tipici delle economie occidentali avanzate;

b) La distribuzione del reddito nella fase di transizione peggiora. Tipicamente, cresce il numero di lavoratori qualificati, i cui salari sono tendenzialmente crescenti. Viceversa, i non qualificati – la cui produttività aumenta grazie all’accumulazione di capitale e che tuttavia sopno più sprovvisti di difese politico-sindacali– continuano a percepire salari reali sostanzialmente stabili. Il primo gruppo, che costituisce il nerbo della cosiddetta classe media, comincia a domandare in misura crescente quei beni – elettrodomestici, automobili, personal computer – verso i quali si muove la struttura della produzione. Mi interessa sottolineare la dinamica della distribuzione infra-salariale piuttosto che quella fra salari e profitti perché in quasi tutte le economie del mondo la quota dei salari sul PIL è nettamente maggioritaria, intorno al 70-75%. E’ li, non altrove, che si capiscono le dinamiche di massa.

c) Nella fase di transizione cresce il ruolo giocato dalle grandi imprese – sempre più frequentemente transnazionali – impegnate nella produzione dei beni verso cui si muove la struttura produttiva.

Le caratteristiche appena elencate sono sufficienti a stabilire una sorta di circolo virtuoso o vizioso a seconda dei punti di vista. L’espandersi della classe media, che esprime una forte domanda di beni come elettrodomestici e automobili, stimola gli investimenti in questa direzione realizati da imprese, nazionali o multinazionali, di dimensione medio-grande. Questi investimenti a loro volta spostano la produzione verso settori che usano più intensivamente lavoro qualificato (il rapporto fra lavoro qualificato e lavoro non qualificato è molto più alto nel settore automobilitico di quanto non sia nel tessile). Per questo crescono il numero e la remunerazione dei qualificati, mentre i non qualificati non beneficiano di incrementi del salario reale e in molti casi possono essere espulsi dal processo produttivo. Il peggioramento della distribuzione del reddito naturalmente sposta la composizione della domanda verso i beni preferiti dalla classe media. Allora, a maggior ragione, vengono stimolati gli investimenti delle imprese medio-grandi che li producono, eccetera eccetera. Il ciclo ricomincia.

E’ questa dinamica circolare, potentissima in moltissime economie, che spesso fa della crescita un meccanismo diseguale. Importanza crescente di beni come elettrodomestici, computer e automobili, imborghesimento di alcuni, arretramento e marginalizzazione di altri. Se questo e’ il modello di crescita e, ripetiamolo, il fatto che sia così in Cina ed India e’ sufficiente per prendere sul serio questo discorso, e’ chiaro che l’impatto ambientale della crescita stessa e’ dettato dalle preferenze, dai gusti, diciamo cosi dal codice culturale della classe media emergente e dalle tecniche in uso per produrre i beni che quella classe desidera. Storicamente, nei casi che abbiamo citato, l’impatto ambinetale e’ stato ed e’ pesantissimo, certamente insostenibile. Se vogliamo ridurlo e se crediamo nello schema di ragionamento che ho proposto, le vie potenzialmente perseguibili sono poche: 1) modificare le preferenze della classe media emergente (operzione culturale di vasto respiro); 2) modificare le tecnologie con cui si producono i beni che la classe media emergente preferisce; 3) cercare di rompere il circolo virtuoso/vizioso che ho provato a descrivere, che in buona sostanza significa impedire che gli investimenti vengano decisi esclusivamente dal mercato.

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