[11/07/2007] Trasporti

Da Venezuela ed Iran la prima auto anti-imperialista. Ma quanto inquina?

LIVORNO. E’ stato consegnato alle forze armate del Venezuela il primo lotto di auto assemblate dalla fabbrica iraniano-venezuelana Venirauto, aperta a Maracay, ad 80 chilometri da Caracas, e che giornali e tv del Venezuela hanno battezzato subito: “automobili anti-imperialiste”.

Le auto made in Venezuela hanno due nomi: Turpial e Centauro, mentre gli stessi modelli in Iran si chiamano Saipa 141 e Samand, e sono assemblate in una fabbrica di proprietà iraniana, hanno un costo non troppo elevato (7.906 e 11.069 dollari) e sono esentate dall’Iva.

La Venirauto, può fabbricare 25 mila auto all’anno e fa parte delle 200 "imprese socialiste" che il presidente venezuelano Hugo Chavez vuole realizzare nel Paese latinoamericano attraverso imprese miste con i Paesio ostili agli Usa. Resta il mistero di cosa ci sia di socialista in uno stato islamico, teocratico e conservatore come l’Iran di Khomeini ed Ahmadinejad.

Le fabbriche “socialiste” dovranno essere realizzate entro il 2008 e opereranno in campo agricolo ed agroalimentare e nelle industria leggera, chimica, automobilistica ed elettronica, per marcare, secondo Chavez, una nuova tappa della rivoluzione boolivarista e socialista venezuelana.

Al di la degli incendiari propositi del caudillo del Venezuela, è chiaro che si sta saldando un eterogeneo fronte antiamericano di nuovissima concezione, che sfrutta il petrolio non solo come arma esterna di pressione economica, ma anche come strumento per il consenso esterno.

E’ significativo che due Paesi che nuotano nel petrolio, con la scusa del nemico comune, si lancino in una impresa di costruzione di auto alternative a quelle delle multinazionali europee, asiatiche ed Usa, per fabbricare autoveicoli autarchici che soddisfino la crescente domanda di un bene di trasporto privato, finora considerato un “lusso” tipicamente occidentale e capitalista.

Il problema è che le aziende automobilistiche multinazionali debbono ormai adeguarsi, e non sempre lo fanno di buon grado, alle normative sulle emissioni dell’Ue o a quelle che piano piano stanno prendendo gli Stati Uniti, mentre i Paesi in via di sviluppo (spesso ricchi di combustibili fossili, come Venezuela ed Iran) puntano tutto sull’economicità dei modelli, sulla creazione della “macchina del popolo” di infausti ricordi, e molto poco sull’innovazione di prodotto, sul basso consumo di materiali e sulle basse emissioni, come dimostra ciò che sta accedendo in India e Cina.

Un modello di consumi e mobilità da boom economico del dopoguerra mondiale e al quale, secondo molti, il pianeta non può reggere a lungo, una mobilità privata già praticamente al collasso nei grandi centri urbani dei Paesi ricchi, ma che dittature e democrazie del mondo in via di sviluppo guardano ancora come modello a cui tendere, come benessere a cui arrivare, come promessa del progresso, a volte “socialista” o “islamico”, dell’intera nazione.

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