[09/08/2007] Urbanistica

Come ridurre l’impronta ecologica e vivere felici (in un ecovillaggio)

LIVORNO. I sindaci di San Francisco a Melbourne si sono accordati per produrre, sulle due sponde del Pacifico, azioni comuni di sostenibilità, a cominciare dal divieto di utilizzare sacchetti e bottiglie di plastica e dal mettere in piedi iniziative per combattere il cambiamento climatico. Le due città degli Usa e dell’Australia vanno così ad infoltire il crescente numero di Comunità locali che adottano politiche “verdi” che, secondo il nuovo “Vital signs update” del Worldwatch institute ha ormai raggiunto i 379 “ecovillaggi” aderenti alla rete globale di Ecovillage, enti locali che hanno intrapreso soluzioni e stili di vita innovativi che puntano ad abbassare l’impronta ecologica di singoli e comunità negli ambiti alimentari, agricoli ed energetici.

Gli ecovillages sono più numerosi in Europa (138), segue l´America del Nord (110), poi l´America latina (58), l´Asia/Oceania (52) e l´Africa/Medio Oriente (21).

Molti ecovillages stanno riducendo l´uso di energia, utilizzano un’agricoltura locale a filiera cortissima, e commerci locali più sostenibili. Un´altra caratteristica che li distingue sono i progetti di bio ed eco architettura, 450 soprattutto in nord America ed Europa, che mettono al centro la qualità della vita dei residenti, con quella che si può definire “socio-architettura”, fatta di case più piccole e molti spazi in comune per facilitare legami sociali più forti e ridurre i bisogni di energia e materiali della Comunità.

Il Beddington zero energy development (BedZed), un complesso di 82 unità abitative a Londra, ha come obiettivo di produrre tutta l’energia che consuma attraverso una combinazione tra esposizione e solare, efficienza energetica, spostamenti a piedi e in bicicletta e utilizzo di mezzi pubblici. Così, nel corso della sua vita un residente a BedZed o nell’altro ecovillage di Findhorn, nel nord della Scozia, avrà un’impronta ecologica sul pianeta che pesa il 60%in meno di quella di un cittadino medio della Gran Bretagna. Nell’ecovillaggio tedesco di Sieben Linden le emissioni procapite di CO2 sono solo il 2% della media nazionale.

E gli ecovillaggi non sono strani posti isolati ma possono trovarsi anche in aree urbane e suburbane, in Paesi industrializzati ed in via di sviluppo: ci sono ecovillages a Mbam, in Senegal, a Porto Alegre, in Brasile; e a Munksøgård, in Danimarca, tutta contribuisce al movimento globale crescente.

Il Global environment facility’s “Compact” program dà indirizzi per le comunità che vivono nei siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco per ridurre gli impatti ambientali, mentre il Relocalization Network sostiene 159 gruppi in 12 paesi per indirizzare le produzioni di alimenti, energia e merci verso una filiera locale corta. Nello Sri Lanka, il movimento di Sarvodaya Shramadana aiuta circa 15 mila villaggi a svilupparsi secondo il modello “no poverty, no affluence” basato sulla risposta ai bisogni di base tra i quali sono compresi un ambiente pulito, una buona educazione di base, e una sostenibilità spirituale.

«Molta gente pensa che la vita in un ecovillagio sia dura e sacrificata – dice Erik Assadourian, autore del “Vital signs update” - Ma la ricerca indica che i residenti hanno ridotto la loro impronta ecologica e i costi finanziari, hanno legami più stretti con i loro vicini, e questo si traduce, più o meno, in minore stress ed in uno stile di vita pieno».

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