[13/08/2007] Recensioni

La Recensione. La vetrinizzazione sociale di Vanni Codeluppi

Un investigatore delle radici del consumismo. Potremmo definire così Vanni Codeluppi. Infatti insegna sociologia dei consumi alla università IULM di Milano, ma soprattutto, anche nei suoi numerosi libri scritti in precedenza, evidenzia una capacità di scavare dentro le dinamiche psicologiche che presiedono l’atto del consumare quali vere forze motrici che relegano la sobrietà ad esercizio razionale quanto assolutamente circoscritto a gruppi minoritari delle società occidentali.

Il processo di vetrinizzazione, non a caso iniziato con la rivoluzione industriale con l’esposizione dei prodotti, si è esteso, negli ultimi decenni, all’intera società creando così “tra produttori e consumatori, un sistema unitario che tende ad abolire ogni segreto, perché in quanto consumatori veniamo inglobati nel processo produttivo dove, mentre consumiamo merci e servizi, contemporaneamente produciamo informazioni funzionali alla produzione di nuove merci e servizi”.
Se il papa calza “Prada”, i francescani del Terzo Ordine di Assisi sono ricorsi alla stilista Elisabetta Bianchetti per rinnovare i propri vestiti.

Ma la vetrinizzazione non riguarda più, solo, prodotti e servizi, riguarda sempre di più il nostro corpo.
Negli Usa sono stati eseguiti nel 2005, 2.100.000 interventi di chirurgia plastica e 3.300.000 iniezioni di Botox, potente tossina botulinica che distende le rughe nel viso. In Italia, ancorché mal contabilizzati (perché molti passano, sotto mentite spoglie, dal Servizio Sanitario Nazionale) i primi non sono meno di 200.000 all’anno, mentre delle seconde ne sono state vendute non meno di 40.000.

Non è un caso quindi, che per i provini annuali del “Grande Fratello” si presentino mediamente oltre 250.000 candidati: una vera e propria spinta di massa alla vetrinizzazione della propria immagine. E le città si acconciano a dare sfogo a questa spinta e da questa spinta vengono ri-plasmate.

Secondo Alain Bourden, infatti, è in atto un passaggio dalla “città come ordine” alla “città come offerta”: Dalla città come organizzazione di spazi alla città come organizzazione di relazioni, di senso, di comportamenti. Gli spazi sono relegati fuori dagli insediamenti urbani e legati all’acquisto. Sono i concept stores, in grado di attirare gente. E ci riescono perché “il sogno del consumo è oggi infinitamente più seducente, agli occhi della stragrande maggioranza degli individui, del racconto sviluppato e comunicato dalla città storica. Questa vetrinizzazione, dove i prodotti si specchiano negli individui e viceversa, tende a rimuovere sia l’invecchiamento che la morte. E quando questi processi e questi eventi si affermano, in esasperati tentativi di rimuoverli, si cerca di spettacolizzare anche quelli: tombe dotate di monitor che riproducono immagini del morto quando era vivo; introduzione di telecamere all’interno delle bare per poter assistere alla decomposizione del cadavere in diretta, ecc…..

Insomma, l’esteriore che fa premio sull’interiore; l’apparenza che fa premio sulla sostanza; il mettersi in mostra che fa premio sul riserbo; il farsi guardare che fa premio sul guardarsi; l’esibire i prodotti che fa premio sul consumarli; la propria rappresentazione mediatica che fa premio sulla possibilità di partecipazione; l’essere percepiti singolarmente che fa premio sulla possibilità di essere percepiti collettivamente che, a sua volta, rovescia il rapporto storico fra organismi di rappresentanza collettiva e singoli rappresentati. Tutto questo, del resto, è l’epicentro della modernità. L’equazione dogmatica quanto stucchevole degli ultimi quindici-venti anni, e cioè che “nuovo = migliore” , non è detto che non possa essere soppiantata da un’altra: migliore=sostenibile (socialmente e ambientalmente). O almeno, pur senza salti logici, false coscienze e ignoranza del contesto, vale la pena di provarci.

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