[30/08/2007] Comunicati

Ricerca: poca, pubblica e non orientata verso la sostenibilità

LIVORNO. Nei giorni scorsi il Cipe ha annunciato di aver revocato in 4 mesi circa 68 milioni di contratti di programma non rispettati, ma soprattutto ha fotografato una situazione di totale deregulation di questo strumento nato per attivare investimenti e nuovi occupati, incoraggiare filiere industriali nelle aree depresse e stimolare la ricerca e lo sviluppo.

La ricognizione complessiva sullo stato di attuazione dei contratti di programma ha in effetti evidenziato tra il 1994 e il 1999 e tra il 2000 e il 2006 sono stati stipulati 112 contatti ma neppure un terzo delle agevolazioni alla fine è stato effettivamente erogato: il 20,5% non ha presentato il progetto esecutivo nei tempi stabiliti, il 29,5% è fuori termine sulla stipula, il 30% non ha concluso gli investimenti nei tempi dati. Focalizzando l’attenzione alla ricerca le risorse individuate rappresentavano circa il 20% dell’investimento, ma il grado di realizzazione è stato inferiore al 50%, con due soli brevetti prodotti, 4 centri di ricerca realizzati su 7; 12 progetti conclusi su 23.

Con Nicola Bellini (Nella foto), direttore del laboratorio management e innovazione della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa prendiamo spunto da questi dati per fotografare la situazione della ricerca italiana, partendo però dai contratti di programma e dalla possibile riforma di questi strumenti.

«Che lo strumento vada modificato è ovvio. La dimensione del problema è troppo importante per considerarla un incidente di percorso e quindi il Cipe ha fatto bene a dare questo segnale forte. C’è bisogno prima di tutto di costruire una reale capacità di dialogo tra il mondo delle imprese e il governo, perché è come se fino ad oggi avessimo avuto due persone che parlavano fra loro e che poi hanno fatto un accordo, ma non si sono mai capite: dobbiamo quindi migliorare le capacità delle strutture amministrative di capire le imprese e dall’altra dobbiamo migliorare le capacità effettive di fare le cose da parte delle imprese».

Nelle prossime settimane sarà attivato un tavolo fra Governo e Confindustria che punterà a razionalizzare tutto il sistema degli incentivi, probabilmente anche i contratti di programma saranno completamente rimessi in discussione.
«Non credo che il contratto di programma posso essere abbandonato del tutto. Bisognerebbe invece intervenire sulla sostanza delle scelte, perché i contratti di programma danno, o darebbero, la possibilità di individuare le imprese anche in base al loro impatto sul territorio. Cosa che invece non hanno altri tipi di interventi a carattere automatico. Insomma non butterei via lo strumento, ma lavorerei sulla sostanza della procedura, evitando di accettare in modo cieco o miope qualsiasi promessa fatta dalle imprese».

Quindi lei sostiene che chi governa dovrebbe fare di più per indirizzare la ricerca e gli investimenti delle imprese? E quale direzione dovrebbe essere suggerita?
«Sì perché non sempre è chiaro il rapporto tra le linee di indirizzo politico e le attività di ricerca poi effettivamente svolte. Non vorrei esser tacciato di dirigismo, ma forse la logica un po’ liberista di lasciare andare la ricerca dove vogliono i professori e le imprese, andrebbe integrata verso una riflessione più cogente sull’interesse collettivo. Le università spesso sono anche giustamente gelose della loro autonomia, ma il richiamo a una maggiore responsabilità sociale e anche ambientale non è secondo me fuori luogo».

Una riconversione ecologica dell’economia, presuppone anche una riconversione ecologica della ricerca. Se qualcosa si è fatto in termini di efficienza e risparmio energetico, perché nulla si fa per risparmiare materia?
«Bell’argomento, credo che questo sia uno dei temi sui quali ci giochiamo un pezzo di competitività. Ma detto questo non sono in grado di darle una valutazione sui risultati raggiunti in questo senso».

Veniamo alla Toscana. Gli ultimi dati disponibili relativi al 2004 indicano che la Toscana ha investito in ricerca e sviluppo poco più di un milione di euro con un incidenza sul pil regionale dell’1,1% (gli obiettivi di Lisbona indicano il 3% di cui due terzi a carico delle imprese, la media italiana ). Più della metà degli investimenti arrivano dal mondo accademico, a fronte di un 30% dai privati e di un 16% degli enti pubblici. Il che significa, come ha fatto notare l’assessore regionale Ambrogio Brenna, che in realtà il contributo pubblico sostiene il 70% della risorse mirate alla ricerca e sviluppo.
«Questo dato va letto intanto come una conferma positiva dell’impegno della politica a favore della ricerca. Poi c’è giustamente da considerare che nella nostra regione scontiamo la dimensione delle aziende che rende insormontabile la difficoltà di far fare ricerca alle Pmi. E’ pur vero infine che queste cifre, e Brenna ha fatto bene a ricordarlo, hanno comunque una capacità di incidere in maniera marginale, sono assolutamente un’inezia rispetto a quelle che può investire una grande multinazionale (l’esempio che fa Brenna è che la Regione in 7 anni ha avuto a disposizione il 50% di quello che Novartis investe su una sola molecola senza avere la certezza del buon fine della ricerca, ndr)».

Industria 2015 punta a coordinare le strategie regionali in fatto di ricerca e sviluppo. Che ne pensa?
«Dissento da questa che in alcuni casi appare proprio come una voglia di centralizzazione. Una cosa è il coordinamento, altra cosa è pensare che la sfida sia quella di concentrare fisicamente le attività di ricerca e sviluppo in pochi centri di eccellenza. La sfida vera al contrario è risvegliare i potenziali di innovazione nelle molte periferie ed è questo il messaggio che arriva anche da Ue».

Torna all'archivio